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DOPO duemila anni quanto ancora ci potrà dare la Chiesa? La sua storia tormentata, piena di contraddizioni, alcune sempre presenti, ci ha deluso e spesso fatto arrabbiare dal momento che tante volte il suo potere temporale, non dissimile in tanti passaggi dai peggiori poteri che hanno dominato e devastato l’umanità, ha tradito il messaggio di Cristo. E per quanto sapere si potesse mettere i campo per giustificare le “deviazioni”, il risultato era ed è stato inevitabilmente deprimente. Poi sbuca dal buio di un tempo difficile il Poverello d’Assisi e senti che Gesù non è morto. E quando si chiude un papato, che ha attraversato infelicemente la barbarie della guerra e dell’Olocausto, ti ritrovi, come le rose della canzone di De André, la folgorazione, brevissima ma incancellabile, di Papa Giovanni, e ti chiedi se sono le stesse Chiese. 

La domanda, per un non credente come chi scrive, sta ritornando negli ultimi tempi e si è manifestata, per una serie di circostanze, con una intensità fortissima. Forse una mano ferma dall’alto, se esiste, ha voluto che nello stesso giorno si celebrassero i funerali di don Gallo e la beatificazione di don Puglisi. Sono due uomini, che, evangelicamente, hanno fatto scandalo con la loro vita. Lontano dai paramenti dorati, dalle sedi sfarzose, dai poteri immutabili, dalle ipocrisie opportunistiche, dalle frequentazioni e dalle amicizie inquietanti. Hanno attraversato, uno per molto e l’altro per poco, il mondo testimoniando con le loro persone e la loro missione la coerenza tra la fede e le azioni. Ha scritto don Mazzi, in una splendida lettera, che don Gallo appartiene a quella platea dei preti, non amati dalla chiesa ufficiale, che frequentano Caino quanto se non più di Abele. Il prete ligure lo ha fatto fino in fondo. Ha perfino combattuto la guerra partigiana e non è normale che al funerale di un uomo di chiesa si canti “Bella ciao”, in un paese dove la devastazione della politica e della storia ha reso addirittura difficile che la si canti nella celebrazioni del 25 Aprile in tanti Comuni. Lui, don Gallo, non si è mai preoccupato di quello che si potesse dire dei suoi comportamenti. Figurarsi che una volta, come ha raccontato, ha perfino rischiato di essere arrestato come un rapinatore. Passava di notte per una strada quando vide un paio di persone che stavano caricando mobili e altri oggetti su un furgoncino. Lui, mai ritenendo che l’uomo sia pregiudizialmente cattivo o scorretto, si fermò per aiutarle quando arrivarono i carabinieri. I due signori stavano svaligiando un negozio e don Gallo li stava aiutando. Gli uomini dell’Arma lo guardarono sorpresi e quasi sgomenti: don Gallo un ladro! Ma lui era così, il suo candore non è stato mai di occasione. Sempre dalla parte degli umili e dei perdenti, senza se e senza ma. Di don Puglisi si può dire poco o nulla che già non si sappia. Ce lo ha ricordato qualche giorno fa in un lungo articolo, che ha regalato ai lettori di questo giornale, Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro e soprattutto postulatore della sua causa di beatificazione. Tanti libri e, soprattutto, uno straordinario film ci hanno restituito il suo consapevole sacrificio in un luogo dove Caino ha le sembianze della mafia. Lui cercava di salvare i figli di Caino, convinto che nessuno nasce buono o cattivo, mafioso o ‘ndraghetista o camorrista. 
I mafiosi di Brancaccio lo uccisero non solo perché erano feroci ma anche perché erano stupidi. Un uomo buono è un dono per una comunità, la sua vita irradia stima, amicizia, affetto, emulazione positiva. Ma se un uomo buono viene assassinato per impedire che continui a fare del bene, la sua morte diventa un simbolo che non finirà mai più di lanciare i semi che irradiava attorno a sé in vita. Nella storia è sempre stato così. In un altro film indimenticabile, “Queimada” di Gillo Pontecorvo, che indagava dal di dentro i caratteri del colonialismo, se lo chiede un Marlon Brando, che sta dalla parte sbagliata, quando deve decidere di giustiziare il combattente anticolonialista finalmente catturato. Ed è ancora Pontecorvo ne “La battaglia di Algeri” che sollecita le stesse riflessioni quando i francesi decidono di reprimere la rivolta popolare. Sono citazioni datate e connotate, ma qui vengono fatte deliberatamente anche perché sollecitate dal canto antico e amico “Questa mattina mi son svegliato…”. Ognuno ha la sua croce e deve imbracciarla. Chi non ce l’ha o non la vede o non vuole vederla iscrive la propria vita nell’ordine naturale delle cose, grigio e immutabile, tranquillo e scialbo. Don Gallo e don Puglisi, e i tanti uomini di chiesa, che fanno della loro vita una testimonianza di fede coerente e “scandalosa”, trasmettono una tale forza spirituale da far ritrovare la fiducia nel futuro dell’umanità. E indicano un percorso alla Chiesa, che, se abbandonato, la renderà arida e lontana dall’originario messaggio cristiano. Quella domanda iniziale, dunque, non è dettata da un forzato ottimismo. Anche perché l’elezione di un papa che ha deciso di chiamarsi Francesco ha avuto subito l’effetto di riaccendere la speranza negli uomini e nelle donne di buona volontà, a qualunque credo o non credo appartengano. Da settimane e ogni giorno egli dice parole semplici. A prima vista sembrano perfino banali tanto sono ispirate al buon senso, ma poi ci si accorge che suonano rivoluzionarie perché da tempo non si sentivano più. La parola è l’espressione di quello che siamo, anche quando è drammaticamente vuota e priva di senso. Ma quando essa ha un suono dolce e familiare, come quello che volevamo ascoltare e che abbiamo perfino temuto di aver dimenticato, il cuore si riempie di forza e di speranza. La ragione faccia il resto.

 

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