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NELLA settimana appena trascorsa, in cui si è consumato l’epilogo del consiglio regionale, con una perla di legge elettorale approvata per lasciare un segno – ben oltre la riduzione delle poltrone – e con l’apertura delle danze per la designazione dei candidati a governatore dei rispettivi schieramenti, rischiava di passare quasi inosservata una notizia che in realtà è dirompente. Anzi, devastante. Per come funzionano le cose in Italia (perché la Calabria comunque ne fa parte) e anche per come, questa volta soprattutto in Calabria, si riesce a farsi scivolare tutto addosso con la serenità non dei giusti, ma degli ebeti. 

Cos’è successo di tanto drammatico? Semplice: un magistrato ha ribadito l’allarme per la carenza di colleghi negli uffici e nel farlo, a proposito del rischio di «nuove vittime di gravi reati per l’impossibilità di operare con mezzi adeguati», ha scritto: «…vorrei che per ogni nuovo morto che insanguina le nostre strade a causa di faide mafiose, prima ancora di chiedersi “chi è il colpevole”, le istituzioni e con esse i cittadini si chiedessero e chiedessero al nostro sistema Giustizia: si poteva evitare?». E poi ha aggiunto: «E’ questa la domanda a cui dobbiamo dare risposta tanto più in casi strazianti e sommamente ingiusti come quello del piccolo Cocò». 
Il magistrato in questione si chiama Gabriella Reillo, ed è la presidente della sezione distrettuale gip-gup di Catanzaro. E’ la stessa che nelle settimane precedenti aveva denunciato le gravi carenze negli organici, rivolgendosi direttamente anche al premier, Matteo Renzi. Di risposte, immaginiamo, non ce ne sono state. E d’altra parte non è la prima volta che giudici e magistrati si espongono pubblicamente non per dissertare sull’anatomia delle organizzazioni criminali locali, ma per denunciare le condizioni proibitive in cui sono lasciati a operare. Questa volta, però, è un po’ diverso. Non siamo di fronte a un episodio di “pubblicità” dell’azione giudiziaria (sarebbe più corretto restringere il campo e parlare di azione investigativa-inquirente) che ogni tanto sconfina in iniziative che fanno pensare a discutibili forme di spettacolarizzazione. Né, certamente, alla voglia personalissima di ribalta che, essendo epidemia nazionale, a volte contagia anche i magistrati. 
Il contenuto della denuncia della presidente Reillo spazza, in ogni caso, qualsiasi dubbio perché la gravità delle sue parole ha una rilevanza oggettiva: davvero dobbiamo vivere con il dubbio che qualche morto ammazzato in Calabria si potrebbe evitare se solo i magistrati fossero messi nella condizione di lavorare con efficacia? E – interrogativo ancora più angosciante – risulta forse che qualche uccisione poteva essere evitata? Per come siamo fatti noi calabresi, non c’era certo da attendersi cortei in tutte le città della regione in cui si innalzassero cartelli con su scritto “Si poteva evitare la morte di tizio?”, “Caio poteva essere risparmiato?”. Per come, forse, sarebbe meglio che diventassimo, però, qualche cosa doveva pur muoversi. Non dico prese di posizione politiche forti sul punto (in tempi di campagna elettorale c’è altro a cui pensare, certo), eppure sarebbe bastato qualcosina più del nulla. I magistrati continuano sulla scia della denuncia della dottoressa Reillo (ne riferisce anche nell’edizione cartacea del Quotidiano Paolo Orofino, a pagina 9), ma per il resto… In attesa che il Governo mandi 800 poliziotti in più, 8.000 o anche 80.000 per la lotta alla ‘ndrangheta, e nella difficoltà di individuare l’interlocutore “sistema Giustizia”, a cui porre la domanda, non resta che rivolgerla alla presidente Reillo, anche in segno di riconoscenza per l’accorato appello di civiltà che ha rivolto: «Le risulta che di recente qualche vita poteva essere salvata se solo magistrati della pubblica accusa e giudici fossero stati nelle condizioni di operare senza affanno?».
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