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SE GUARDIAMO ai dati statistici nudi e crudi, c’è da farsi prendere dallo sconforto. L’ultima fotografia dell’Istat, “Noi Italia 2015”, restituisce l’immagine di un paese molto più che in ginocchio; e sempre più proteso verso velocità triple che relegano Sud e Calabria in posizioni di grande fragilità. Le evidenze sono tantissime: bene ha fatto Rocco Valenti a segnalarne alcune nel suo editoriale di qualche giorno fa, alimentando un dibattito che non può più restare in tavoli separati. Qui è in gioco il futuro della Calabria e delle giovani generazioni, e ogni passo falso potrà avere ripercussioni devastanti. Pensiamo a quelli che nel gergo si chiamano “Neet”, un acronimo che identifica una fascia di popolazione giovane, compresa fra i 15 e i 29 anni, che pare essersi eclissata: non studiano, non lavorano, non sono in alcun processo di formazione. Spariti. Fantasmi. Dovrebbero essere le forze per il domani di qualsiasi terra, ma in Calabria il 35.6% di quella fascia d’età è, appunto Neet. Più di uno su 3, insomma, contro una proporzione nazionale di 1 a 4. E se ci spostiamo da chi non fa nulla a quelli che lavorano, possiamo registrare (dato 2013) in Calabria il minor tasso di occupazione a livello nazionale (42.3% contro il 59.8% italiano) e, di converso, il tasso di disoccupazione giovanile più alto (56.1% contro il 40% nazionale).

E’ evidente che la Calabria, da sola, non può affrancarsi da questa non invidiabile situazione: c’è bisogno di una ripresa generale perché le cose possano cambiare in modo significativo. Comunque la situazione non deve essere alibi per rinforzare l’autocommiserazione che serpeggia spesso nei discorsi di casa nostra: da soli non si cresce, ma se non ci si impegna si rischia di morire. Prendiamo l’istruzione: anche in Calabria comincia a sentirsi qualche ragionamento del tipo “Studiare non serve, tanto non c’è lavoro”. Niente di più profondamente sbagliato. Pur con le difficoltà strutturali di accesso al mondo del lavoro, l’Eurostat evidenzia comunque che l’investimento nell’alta formazione consente ai laureati di trovare più facilmente un’occupazione rispetto ai diplomati di scuola superiore: 84 per cento contro 73 per cento.

Non solo, ma ci sono anche importanti differenze retributive: nella fascia di età 25-34 anni il differenziale retributivo è pari al 40 per cento a favore dei laureati rispetto ai diplomati. Una tendenza confermata anche dai dati Ocse, che registrano un tasso di occupazione dei laureati europei dell’82 per cento, molto superiore rispetto a quello dei diplomati, pari al 67 per cento. Quanto ai laureati, a cinque anni dal titolo, il tasso di disoccupazione si riduce a valori “fisiologici” (6%). La crisi economica, dunque, ritarda l’accesso al lavoro rispetto a tempi di attesa in precedenza più brevi. Tuttavia, trascorso un periodo di maggiore difficoltà, i giovani laureati trovano un impiego. Cinque anni dopo, l’occupazione, indipendentemente dal tipo di laurea, è prossima al 90 per cento.

Insomma, quando questi venti di crisi smetteranno di soffiare, starà meglio chi non si farà trovare spiazzato. Studiare, quindi, serve eccome. Certo, bisogna cominciare a ripensare a percorsi scolastici e accademici, rendendoli sempre più “interni” ai processi del mercato del lavoro e con un occhio decisivo alla internazionalizzazione. Tra i 24 obiettivi strategici individuati dal Miur per il 2015 ci sono fra l’altro proprio la riprogrammazione dell’orientamento universitario per assicurare un miglior collegamento tra mondo del lavoro e ambito accademico, oltre al sostegno ai percorsi d’internazionalizzazione degli atenei e ai processi di apertura internazionale degli Enti pubblici di ricerca. La sfida insomma, lungi dal rinchiudersi in steccati localistici assolutamente improduttivi, è certamente quella della dimensione internazionale del sapere, con l’innovazione considerata sempre più volano per la crescita e il sorgere di scintille di auto imprenditorialità: elemento, questo, assolutamente nuovo rispetto ad un recente passato fatto di ricerca di posti di lavoro stabili e ripetitivi.

Di questo ha bisogno il Paese, di questo ha tremendamente bisogno la Calabria. Di innovazione sociale, scolastica e accademica. Si fa con coraggio. Un esempio? I master spinoff della Umg, come quello su Demoscopia e indagini di mercato che dirigo, una chiara opportunità di formazione finalizzata all’avvio di startup innovative. Perché il sapere sia immediatamente spendibile e favorisca nuove opportunità lavorative.

 

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