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Passeggeri in attesa dell'imbarco

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di RENZO BONOFIGLIO

Sono all’aeroporto di Lamezia dove sono venuto a prendere, proveniente da Milano, il mio migliore amico che, ancora una volta è andato per i suoi controlli clinici. Dopo esserci salutati, entriamo in macchina per tornare a casa ed inizia, con voce rotta, a raccontarmi una storia. Mi dice che era appena salito in aereo, aveva preso possesso del suo posto e guardava fuori dal finestrino per catturare, finalmente, un raggio di sole, quello, per intendersi, che scalda l’anima dopo giorni di freddo e di vento gelido, che gli aveva fatto lacrimare gli occhi senza un dolore preciso. Mi dice che sono ormai passati due anni che va e viene da Milano, da quando il cancro gli ha cambiato, radicalmente, la vita e le prospettive.

Mi racconta che nei suoi continui viaggi, appena seduto, e in attesa che l’aereo decolli, spesso gli capita di ascoltare le conversazioni tra passeggeri vicini di posto. Io lo so che lui raramente riesce ad intrecciare conversazioni con i suoi vicini di posto, perché la sua timidezza e la sua, ormai, ventennale abitudine al silenzio, lo inchioda al sedile e ogni volta vola con i suoi pensieri che si intrecciano con i cumuli di nuvole e con lo sterminato azzurro del cielo. Da quando gli hanno scoperto il cancro parla sempre meno e lascia che il tempo torni ad appartenergli per riempirlo, come lui dice, di istanti di presente.

Mi racconta che oggi, davanti al suo sedile, una giovane donna, dai capelli color oro e con un accento aspirato, tipico delle aree centrali di questa povera Calabria, raccontava la sua storia al suo vicino di sedile. Il vicino, un signore milanese doc che viene in Calabria per preparare il suo futuro da giornalista pensionato, ascoltava il racconto la cui trama, che il mio amico conosce bene, appartiene a migliaia di altri calabresi che solcano i cieli per raggiungere un posto che ridia speranza. Mi dice che la signora raccontava che era andata a Milano per il cancro con cui da anni aveva ingaggiato la sua lotta senza farsi mai sopraffare dalla disperazione e dal pessimismo.

“Io, anche nei momenti peggiori, non sono abituata a lamentarmi e cerco di combattere senza mai far pesare il mio dolore sugli altri”. Questo è il suo racconto, asciutto, senza fronzoli e fatto con un tono di voce per nulla lamentoso, ma pieno di energia vitale che, mi dice il mio amico, lo ha letteralmente rapito. Mentre guido verso casa e mentre lui continua il racconto, penso che questo è il racconto di tanti calabresi, che come lui e come la signora, sempre più spesso, prendono l’aereo per andare a cercare le risposte alla malattia e per ritrovare la speranza in un domani possibile.

Questo è il Sud, questa è la Calabria, questi sono i Calabresi: un popolo di migranti per necessità alla ricerca o del lavoro o della giusta cura. Noi siamo quelli che andiamo a Milano o altrove per trovare una risposta alla disperazione, alla vita e per ridurre l’angoscia nella speranza di trovare chi ti accoglie e ti sappia offrire, non solo una soluzione, ma anche un po’ di tenerezza che renda meno brutta la malattia. Spesso infatti, si parte non tanto e non solo perché mancano le strutture e gli uomini, ma perché i nostri ospedali, i nostri medici, i nostri infermieri, sono privi di quella tenerezza, di quella bellezza antropologica che rende un posto di cura più caldo, più accogliente e più protettivo.

Il viaggio, per noi del Sud, che non abbiamo la fortuna di uno spazio (Ospedale) degno di questo nome, diventa la ricerca, non solo di uno spazio, ma soprattutto di un “processo” e dove la malattia ha certamente bisogno di un nuovo lessico per essere raccontata ed accarezzata. La signora ed il mio amico hanno volato insieme, sono atterrati insieme, mondi lontani, sconosciuti e pur così vicini e così uguali. Angosce sconosciute e così simili, distanza eppure vicinanza. Il mio amico non ha visto il volto della signora, ma ha ascoltato la sua voce, e soprattutto la sua narrazione che è la storia anonima di migliaia di calabresi, uomini, donne, bambini che ogni giorno solcano il cielo per una destinazione di speranza.

Si solca il cielo per incontrare, nell’incertezza della medicina, quello spazio del contenimento della tua malattia e della tua anima dove incontrare il guaritore idealizzato di cui fidarsi e a cui affidarsi e che possa, almeno in parte, restituirti un pezzettino di quello che eri. Questa è la solitudine del viaggio della speranza e questi sono i pensieri e le parole di chi, oltre ad essere un malato perpetuo, diventa anche un viaggiatore perpetuo.

Arriviamo, lo lascio sotto casa e penso che se sei sano puoi vivere ovunque, ma se ti ammali, il luogo in cui vivere farà la differenza tra sopravvivenza e dignità. E intanto non si riesce, nonostante le innumerevoli parole, a sterilizzare il nostro sistema sanitario regionale dal malaffare, dalle incompetenze, dalle brutture strutturali ed antropologiche. Se si continua cosi si rischia che un solo aeroporto non basterà più.

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