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Giacomo Mancini

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Quattro lustri fa moriva Giacomo Mancini, uno dei più grandi statisti della Calabria, leader politico nazionale che fece contare le ragioni del Sud, della sua regione, della democrazia e del socialismo.

Osserviamo che l’unica riflessione odierna annunciata per oggi è “soltanto” quella della Fondazione di famiglia. Il silenzio sull’anniversario della Regione, del Municipio di Cosenza, delle agorà di sinistra e dei socialisti è molto rumoroso. Forza del presente o grande rimosso della politica regionale è un primo tema del giorno dell’anniversario.

Altre sedi sono deputate ad analizzare e dibattere di quello che è stato realizzato, quello che si poteva meglio fare, quello che fu sbagliato. Molti se e ma, che non faranno la Storia ma risultano utili al ragionare di politica, si potrebbero adoperare per poter dispiegare il gioco del “se c’era lui”.

Ritengo utile, invece, nel ricordo di Giacomo Mancini, analizzare questi vent’anni senza il suo intuito e decisionismo per meglio comprendere come siamo cambiati e chi sono i suoi eredi, con eventuali affinità e divergenze.

Un ventennio che ha registrato 11 governi nazionali di diverso colore politico, compresi quelli tecnici dettati da emergenze clamorose. In ben 4 di questi nessun politico calabrese ha diretto ministeri, anche quelli senza portafoglio. Sei i presidenti della Regione eletti con il voto del popolo e che nella complessità hanno raggiunto pochi risultati strutturali, rassodando pregiudizi negativi nei confronti di una Calabria infelix, per stessa ammissione dei calabresi.

Vent’anni sono un periodo storico. Titolo da Dumas, utile a capire cosa è accaduto dopo Giacomo Mancini e chi ne ha preso il posto e con quali risultati.

I personaggi di rilievo sono pochi. Ma va spesso così. Tra le anomalie, Agazio Loiero per esempio. Dalla Prima alle soglie della Terza Repubblica deputato e ministro. Agli Affari regionali si è distinto politicamente per aver fronteggiato con capacità le tendenze scissioniste della Lega. Dotato di ottima cultura ha provato a far leva su circoli intellettuali ma senza scardinare gli assetti chiave della Calabria. Ha tentato di costruire una Regione nuova da presidente, ma gli alleati interni sono stati i suoi principali avversari. Minacciato da ‘ndrine e processato 4 volte, sempre assolto. Sensibile ai temi dei migranti e autonomista, forse per brutto carattere non ha realizzato il suo disegno. Resta la sua voce autorevole e gesuitica.

Nel Pantheon calabrese del ventennio resta anche Stefano Rodotà. Ha sfiorato il Quirinale, ma il suo servir civile era molto da livello nazionale. Pur rivendicandosi calabrese poco potè incidere sui destini della sua terra.

Marco Minniti ha sicuramente occupato la scena nazionale della politica. Ministro dell’interno, Lothar di diversi presidenti del Consiglio, uomo forte per lungo tempo degli eredi del Pci calabrese. Fu proprio lui a riconciliarli con Giacomo Mancini e non ha saputo impedire le derive interne del Pd fomentate dai signori delle tessere e dei voti. Lascia l’orrore dei campi libici stigmatizzati anche da Papa Francesco. Alieno alle sorti della Calabria, ha pensato alla sua carriera personale.

Mario Oliverio, alleato ex comunista di Mancini, parlamentare peones di lungo corso (ha avuto più mandati di Fausto Gullo, altro gigante del passato) ha costruito modelli virtuosi come Presidente della Provincia di Cosenza franando clamorosamente alla guida della regione Calabria, fermato anche da inchieste giudiziarie finite a nulla.

Le aule di Giustizia con verdetto di condanna archiviano, invece, Giuseppe Scopelliti, ex enfant prodige della destra calabrese e nazionale che a Reggio Calabria come sindaco ha prodotto lacerti di rinnovamento oscurati da magagne e camarille da basso impero e mondo di mezzo alla Regione.

Jole Santelli, che proveniva alla lontana dal mondo manciniano, fu sottosegretaria sempre fedele a Berlusconi, e quando si apprestava a confrontarsi con il cambio di passo decisivo alla guida della Regione, le Parche hanno reciso il filo della sua vita.

Oggi è il tempo di Roberto Occhiuto che, giovane ora, iniziò imberbe quando la Dc era ancora viva. Avversò Mancini e fece carriera per gradi arrivando ad essere capogruppo di Forza Italia alla Camera. Non si ricordano sue grandi azioni sulle questioni di bene pubblico, si spera che ne compia molte in questo tempo difficile.

Ha lasciato molto di più a Cosenza, al di là del bene e del male, il fratello Mario da sindaco, abile nel costruire modelli ed opere spesso in continuità con Giacomo Mancini. Anche lui è stato fermato per via giudiziaria dalla possibilità di guidare la Regione. Una costante della vita regionale, che riguardò anche Mancini, l’allora sindaco non vinse solo un processo ma anche una partita politica.

Poteva essere Guardasigilli Nicola Gratteri, ma fu fermato giustamente da Macaluso e Napolitano. Passerà alla Storia solo come magistrato, ma dubitiamo che la ‘ndrangheta possa perire solo per il carcere duro.

Gigi De Magistris, altra toga passata alla politica, ha dato illusioni ai votanti e poltrone al suo Io ipertrofico. Nel sottobosco Nicola Adamo e Enza Bruno Bossio per consenso di lungo corso. Sono pure soddisfazioni.

È andata meglio in questi vent’anni con i sindaci. Mimmo Lucano, anche lui alle prese con discutibili vicende giudiziarie, è persona più che personaggio, che parla al mondo e che ai calabresi ha indicato un altro mondo possibile per la Calabria.

Purtroppo, in questi due decenni, non abbiamo avuto Italo Falcomatà, morto prima di Mancini con cui molto interagiva. Ha risollevato le sorti di Reggio Calabria, difficile per il figlio Giuseppe il confronto con il padre.

Sono stati buoni modelli municipali quelli lametini di Doris Lo Moro, che bene fece anche in Regione e al Parlamento, ma con poco potere e molti avversari; e anche Gianni Speranza fu capace di risollevare le umane sorti amministrative e progressive di Lamezia Terme.

Ha ben operato a Catanzaro, l’imprenditore Sergio Abramo, dando una visione nuova al capoluogo di Regione con opere e politica. Sconfitto alla Regione deambula tra cespugli centristi e veleni di vecchi alleati.

In vent’anni non abbiamo avuto ministri alla Mancini. Ci fu un rettore di Reggio Calabria, che seppe solo litigare con i compagni della sua area. Lascia alla Calabria solo le sue pubblicazioni e all’Italia una legge sulla sicurezza stradale che non ha prodotto grandi risultati. Il resto è poco.

Tonino Gentile che è stato sottosegretario viene ancora ricordato per la pubblicistica che lo tramandò ungolato feroce, il fratello Pino è sempre modello di consenso. Venivano da Mancini, anche loro, hanno lasciato eredità politica ai figli, ma alla Calabria mi pare ne sia venuto poco, si sono guardati molti gl’interessi di bottega.

Catricalà fu grand commis di rango e segretario di governo, De Gennaro un poliziotto capace con la mafia e protagonista di macellerie messicane al G8 di Genova, la farmacista Lanzetta ministro per un mese in una vicenda pirandelliana condita di minacce. Furono sottosegretari con poco mordente Gigi Meduri, anche presidente di Regione di cui Wikipedia rammenta solo incarichi e nessun provvedimento, Mario Tassone, vecchio giovane Dc, Francesco Nucara eterno repubblicano di ogni stagione, Aurelio Misiti, pronto ad ogni schieramento e che almeno aveva un’idea sul Ponte. Ma solo l’idea.

Il nuovo che avanza è di alcune donne. Dorina Bianchi, almeno otto cambi di casacca, ma possiamo sbagliare per difetto. Il più grande voto di protesta della Calabria ci ha dato anche Anna Laura Orrico, grandi capacità di ascolto, al momento solo quello e Dalila Nesci che produce quintali di comunicati e annunci. Potremmo aggiungere il senatore Morra all’Antimafia, dove Mancini operò da par suo, ma lasciamo Maramaldo a riposo.

Ci manca Giacomo Mancini? In vent’anni ne abbiamo visti della sua statura politica? Si accettano risposte.

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