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Tiberio ed Enza Bentivoglio

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REGGIO CALABRIA – Cinque anni fa arringava la folla col megafono davanti alle ceneri del deposito, oggi l’amministrazione Falcomatà minaccia lo sfratto. Dopo una lunga sequela di episodi di violenza e atti intimidatori, tra lettere minatorie, furti, incendi, bombe e un tentato omicidio a colpi d’arma da fuoco, i coniugi Tiberio Bentivoglio e Vincenza Falsone, vittime della criminalità organizzata, chiedono ancora aiuto allo Stato.

LA STORIA DI TIBERIO BENTIVOGLIO

I due, titolari della “Sanitaria Sant’Elia”, ubicata in un bene confiscato sul lungomare di Reggio Calabria, hanno ricevuto dal Comune di Reggio Calabria una lettera di messa in mora con intimazione a pagare gli affitti arretrati, tremila euro al mese per gli ultimi cinque anni.

Soldi che non possiedono, a causa dei debiti contratti per far fronte ai numerosi attentati subiti e ai ritardi burocratici nell’ottenere i risarcimenti dovuti alle vittime della criminalità organizzata.

In una lunga lettera, inviata al Comune e per conoscenza al Presidente della Repubblica, al procuratore nazionale antimafia, al prefetto di Reggio Calabria, al presidente della commissione parlamentare antimafia, al presidente ff della Regione Calabria, all’Anci, a Libera e ad Avviso Pubblico, i coniugi Bentivoglio ripercorrono la loro lunga e travagliata storia.

La richiesta che Bentivoglio e Falsone rivolgono alle Istituzioni, in primis al Comune, è di rinegoziare il canone di locazione dell’immobile confiscato, rettificando anche la posizione debitoria contestata, che non terrebbe conto dei soldi spesi per ristrutturare l’immobile. Un canone accettato in condizioni di necessità, spiegano, circa 5 anni fa, all’indomani dell’incendio doloso che mandò in cenere tutta la merce custodita in un deposito.

I coniugi chiedono anche di applicare la delibera del Consiglio comunale di Reggio Calabria, la n. 17 del 27 aprile 2012, che ha riconosciuto a favore degli imprenditori che denunciano l’esenzione dei tributi.

«Bisogna capire in questo comune cosa vogliono fare delle vittime di mafia, non ci bastano più le parole, i microfoni, le passerelle, se non sono seguiti da atti concreti non ce la facciamo», così all’Agi Tiberio Bentivoglio ha raccontato la propria situazione.

«Siamo rimasti nella nostra città – spiega l’imprenditore – dove abbiamo denunciato, per continuare a insistere, perché vogliamo vincere, perché solo quando Tiberio vince diventa contagioso. Oggi posso andare da un mio collega e dirgli “smettila di pagare il pizzo, perché io ho vinto, pur dopo tanti anni ce l’ho fatta”? No, ancora non posso».

Perfino un parziale risarcimento elargito dallo Stato per l’attentato subito il 28 febbraio 2016 gli è stato sequestrato dall’Agenzia delle Entrate: «Le elargizioni ex legge 44 – spiega Bentivoglio – non sono pignorabili ma non è scritto esplicitamente nella legge, è un paradosso giuridico».

«Non posso neanche fatturare a un ente pubblico – continua a raccontare Bentivoglio – trattato come se fossi un mafioso. Mi manca il Durc che non ho perché ho debiti con l’Inps, debiti contratti non perché me li sono giocati al gratta e vinci ma perché ho subito sette attentati».

Per aiutare i Bentivoglio basterebbe una modifica alla legge 109 del 96 sui beni confiscati: «C’è la legge voluta da Libera con la raccolta di un milione di firme, stabilisce che i beni confiscati vengono assegnati per fini sociali, a cooperative senza scopo di lucro e associazioni onlus. Oggi c’è l’esigenza di assegnarli anche alle vittime di mafia, chiedo la modifica della legge 109, basta un comma».

Ieri sera Bentivoglio ha ricevuto la telefonata del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho: «Da sempre al fianco di chi denuncia, anche stavolta mi ha chiamato appena ricevuta la lettera, ha avuto la sensibilità di chiedermi cosa sta succedendo».

Anche il senatore Morra ha chiamato Bentivoglio: «Pare abbia chiamato il sindaco di Reggio il quale gli ha risposto che nella prossima settimana ci convocherà. Ma sono ancora parole, abbiamo bisogno di fatti».

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