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Antonio Nicaso

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«LA mafia è un prodotto delle classi dirigenti e quindi una patologia del potere». Lo ha detto lo storico Antonio Nicaso, docente alla Kingston Queen’s University, che ha relazionato su “’Ndrangheta: una patologia del potere politico ed economico” nell’ambito del seminario internazionale “Mafia e mafie tra storia, potere e educazione: una prospettiva interdisciplinare”, organizzato dall’università di Torino. La tesi di Nicaso è quella di un’«integrazione delle mafie nella società e nell’economia», essendo i proventi illeciti della criminalità organizzata «componente strutturale del capitalismo globale».

Prendiamo l’esempio della mafia calabrese, ormai la più potente essendo presente in tutti i continenti. «La ‘ndrangheta è cresciuta nel silenzio ma se ne poteva cogliere la portata a fine Ottocento, durante il fascismo e nel primo dopoguerra», ha detto Nicaso, facendo un excursus storico.

Il riferimento è a tre tappe fondamentali: il 1869, quando il Comune di Reggio Calabria fu sciolto con decreto regio poiché una “setta di camorristi accoltellatori” si rese responsabile di brogli elettorali e ferimenti di avversari politici; il 1930, quando Antonio Musolino, fratello del famoso brigante Giuseppe Musolino, svelò la struttura unitaria della ‘ndrangheta reggina dei tre mandamenti, che sarebbe stata acclarata processualmente soltanto con la sentenza Crimine Infinito, dopo oltre 80 anni; il 1969, quando il summit di Montalto, nella provincia reggina, fu scoperto con un’operazione di polizia.

Plurimi gli esempi ripercorsi dallo storico che attestano che la violenza della ‘ndrangheta è “strategica” e legittimata dalle classi dirigenti che l’hanno utilizzata come strumento di governo del territorio, ma Nicaso aveva appena finito di scrivere un articolo sulla Yakuza, l’organizzazione criminale giapponese «che ha avuto relazioni con i partiti nazionalisti» e lo stesso, collaudato modus operandi è rintracciabile nella Triade cinese e in altre mafie.

Sempre secondo lo storico, la ‘ndrangheta non è stata adeguatamente combattuta nel corso della storia perché «funzionale alle logiche delle classi dirigenti». Legatasi al Partito nazionale fascista prima e alla destra eversiva e alla Dc poi, «arriva al Nord non grazie ai soggiorni obbligati ma per offrire servizi come la manodopera a basso costo e garantire sostegno elettorale».

Nicaso ha citato le inchieste delle Procure antimafia settentrionali e gli scioglimenti di Comuni del Nord per ‘ndrangheta che spazzano via «l’interpretazione culturalista della ‘ndrangheta come agente patogeno»; inchieste da cui emerge che «è la criminalità economica che conforma l’agire mafioso e non viceversa, perché si muove in contesti dove non viene rifiutata».

Presente in 50 Paesi, la ‘ndrangheta odierna è sempre più “ibrida”, capace di estrarre criptovalute, di penetrare le piattaforme clandestine del trading, anzi è uno degli investitori privilegiati per gli enormi capitali di cui dispone e fa pertanto parte di un clan più ampio, per così dire. «I server li troviamo in Canada, a Londra e Hong Kong, nel resto del mondo sono illegali». Siamo già arrivati agli scenari sofisticati fotografati dalla recente operazione “Glicine-Acheronte” condotta dalla Dda di Catanzaro, che ha svelato che hacker tedeschi lavoravano gomito a gomito con gli uomini di fiducia del boss Domenico Megna, capo di una cosca stanziata nel periferico quartiere Papanice di Crotone.

Uno dei broker tedeschi reclutati dal clan è stato addirittura trovato in possesso di un «vademecum per incanalare i soldi delle mafie nelle banche a cui bisogna spiegare che altrimenti quei soldi li prende la concorrenza». A ciò si aggiunga che nel 2008 i soldi della droga salvarono banche. Pertanto «oggi è una certezza che quei soldi non vengono rifiutati in alcuni Paesi che non hanno intenzione di combattere questa ricchezza».

Temi al centro anche della relazione del professor Fabio Armao, docente di Relazioni internazionali all’università di Torino, che, conversando su “Cluster criminali: stato e mafia in un mondo globalizzato”, ha osservato che «i crimini dei potenti sono di tipo sistemico, vengono compiuti grazie alla collusione col sistema economico, politico». Armao si è soffermato anche sul concetto di “colonizzazione” valorizzato da inquirenti e giudici per significare la pervasività della ‘ndrangheta nelle regioni del centro-nord ma anche su scala globale. «Mentre la colonizzazione delle potenze europee nei secoli scorsi partiva dal centro e andava verso la periferia, oggi si registra una sorta di nemesi, le periferie conquistano i centri del sistema internazionale».

La prospettiva interdisciplinare si è concretizzata ulteriormente grazie all’intervento di Giancarlo Costabile, docente di Pedagogia dell’Antimafia dell’UniCal, che, relazionando su “Antimafia e pedagogia trasformativa: la legalità costituzionale come educazione ai diritti”, ha auspicato che «la parola antimafia da un punto di vista pedagogico diventi prioritaria e faccia da leva per costruire un processo di trasformazione della società e smontare le parole del potere globale».

Non a caso Costabile si è definito “operaio della parola” e ha sostenuto che in una “società mafiogena” «compito della scuola è costruire una rete di cittadini sovrani», teorizzando la pedagogia come «sapere critico e cittadinanza attiva» e citando l’insegnamento di don Milani. «Dalle parole del potere al potere della parola», la conclusione del pedagogista dell’UniCal.

Sulla stessa lunghezza d’onda Lorena Milani, docente di Pedagogia generale e sociale dell’università di Torino, intervenuta su “Pedagogia della mafia vs Pedagogia della proposta: strutture e storture”. «Quando la pedagogia non si prende abbastanza cura – ha detto – lasciamo vuoti che vengono colmati dalla criminalità, dalla depressione, dal disagio. Bisogna sopperire al vuoto educativo occupato dalla pedagogia delle mafie, dalla cultura mafiosa, perché la normalità della mafia non è quella che respiriamo in maniera occulta ma è ormai pervasiva».

Dalla capacità delle mafie di moltiplicare profitti grazie a paradisi fiscali e normativi a quella di perpetuare linguaggi, codici, subculture, la prospettiva interdisciplinare ha spaziato in profondità. Ma è soltanto la tappa di un cammino.

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