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TORINO – Andare a cena per “ben tre volte” con i boss della ‘ndrangheta, e non dare spiegazioni convincenti ai magistrati, è una «condotta gravemente colposa» che non permette di ottenere dallo Stato un risarcimento per «ingiusta detenzione».

E’ quanto ha ribadito la Corte di Cassazione nel confermare il “no” all’indennizzo chiesto da Vincenzo C., un sessantenne originario di Grotteria (Reggio Calabria) che era stato arrestato e poi assolto a Torino dall’accusa di associazione di stampo mafioso.

Gli investigatori sospettavano che l’uomo fosse affiliato al clan con la dote di Santa perché partecipò a cene cui erano presenti dei boss e dove furono conferiti gradi o promozioni a due personaggi. Una circostanza che, sebbene non sia stata sufficiente per arrivare a una condanna, ha attestato “quantomeno la sua contiguità alla consorteria mafiosa”. E che, come ha rimarcato la Cassazione convalidando la decisione della Corte d’appello di Torino, contribuì ad «alimentare l’erronea convinzione circa una sua intraneità alla locale di ‘ndrangheta (in questo caso quella di Natile di Careri a Torino, ndc) e la decisione di sottoporlo alla misura restrittiva».

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