X
<
>

Condividi:
2 minuti per la lettura

REGGIO CALABRIA – Il presunto boss di ‘ndrangheta Carmelo Murina avrebbe autorizzato il ritorno dalla località protetta a Reggio Calabria del pentito Giuseppe Morabito «in cambio della ritrattazione di tutte le dichiarazioni da lui rese durante la sua collaborazione con la giustizia». In particolare, il collaboratore, conosciuto con il soprannome di «Pino capraro», avrebbe dovuto rimangiarsi le accuse «nei confronti di Donatello Canzonieri, divenuto nel frattempo braccio destro di Murina».

È quanto è scritto nell’avviso di conclusione indagini che il procuratore Giovanni Bombardieri e il sostituto della Dda Sara Amerio hanno notificato a Carmelo Murina, attualmente detenuto e considerato dai pm il referente della cosca Tegano nel quartiere di Santa Caterina.

Stando all’inchiesta, la ‘ndrangheta ha autorizzato la costituzione di un gruppo di rapinatori e topi d’appartamento. Un sodalizio che, tra il 2005 e il 2015, sarebbe stato capeggiato da Giuseppe Morabito. Il pentito è indagato assieme a Murina. Si tratta, in sostanza, di un’associazione a delinquere “finalizzata – è scritto nel capo di imputazione – alla commissione di rapine, furti in abitazione ed in esercizi commerciali». Complessivamente sono sei gli avvisi notificati dal pm Amerio. Tra gli indagati, infatti, ci sono anche Pina Franco – moglie di Murina e figlia del boss Michele Franco -, Giovanni Morabito detto «Ivan», Salvatore Sinicropi e Roberto Veltri.

Secondo gli inquirenti, «nella sua qualità di referente di ‘ndrangheta sul territorio di Santa Caterina, capo della cosca Franco-Murina, federata alla più potente cosca dei Tegano-De Stefano di Archi», il boss Carmelo Murina sarebbe stato il “concorrente morale” dell’associazione di rapinatori i cui promotori sono stati individuati dalla Procura nel pentito Giuseppe Morabito, in suo nipote Giovanni Morabito e in Salvatore Sinicropi. Pina Franco, invece, sarebbe stata la “postina” che avrebbe prima veicolato un messaggio dello zio Roberto Franco all’interno del carcere, dove era detenuto il marito, e poi la risposta di Carmelo Murina affidata a un “pizzino” con il quale il boss ha risolto le frizioni tra i rapinatori e gli uomini del clan.

Stando alla ricostruzione della Procura, infine, Roberto Veltri avrebbe avuto il «compito di custodire, occultate in una botola in una parte condominiale della sua abitazione, le armi e le munizioni» oggetto dei furti. Un arsenale di cui avrebbe usufruito non solo il gruppo di rapinatori ma anche la cosca Franco-Murina.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE