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La Corte d'Appello di Reggio Calabria

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MOTTA SAN GIOVANNI (REGGIO CALABRIA) – L’assoluzione con formula piena, dei coniugi, Filippo Zampaglione e Filomena Liuzzo, accusati di aver ucciso il 14 aprile 2010, in quel di Lazzaro, l’anziano Giuseppe Liuzzo, padre dell’allora imputata, fu frutto di un macroscopico errore giudiziario che merita di essere riparato con la conseguenziale condanna al risarcimento dei danni da parte dei Ministeri competenti per l’ingiusta detenzione subita.

Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Reggio Calabria accogliendo la richiesta avanzata, per conto della coppia, dal legale di parte, Michele Miccoli. In primo grado, infatti, i due coniugi erano stati condannati all’ergastolo ed arrestati subito dopo la sentenza che, come è stato dimostrato in seguito, presentava macroscopici errori.

Il gravame proposto dal legale, Michele Miccoli, si concluse con l’assoluzione dei coniugi, da parte della Corte d’Assise d’Appello reggina, con formula piena, per non aver commesso il fatto ma dopo ben 371 giorni di arresto. Riavvolgiamo il nastro della vicenda. Il corpo senza vita di Giuseppe Liuzzo fu trovato dentro la sua casa, riverso per terra col cranio fracassato e con alcune costole rotte da colpi inferti con una pesante arma contundente mai ritrovata.

La ricostruzione dei fatti, operata dagli inquirenti, ed accolta dal giudice di primo grado, portò alla condanna di Zampaglione e della consorte. Tuttavia, la difesa, tra le tante contestazioni avanzate, annoverò la mancanza di un movente a carico della coppia nonché la contraddittorietà degli elementi indiziari a carico dei coniugi. In particolare, gli inquirenti e l’accusa, ritennero, erroneamente, che il movente andasse rinvenuto in una presunta penalizzazione dei coniugi nella ripartizione dell’asse ereditario da parte della vittima.

Tuttavia la Corte d’Assise d’Appello ha ritenuto priva di ragionevolezza tale ipotesi accusatoria, in quanto alcuni mesi prima la questione era stata appianata dalla vittima con tutti i figli. Appariva peraltro illogico che una persona impegnata al telefono per oltre 30 minuti potesse commettere un omicidio in quel momento o nel giro di qualche secondo abitando a qualche chilometro di distanza e che era erronea ed empirica la teoria formulata dagli inquirenti, con la quale si sosteneva che, essendo lo Zampaglione al telefono ed essendo la telefonata captata dalla cella di Taormina e non di Motta San Giovanni, lo stesso si trovasse in prossimità della Via Marina di Lazzaro per uccidere il Liuzzo.

La Corte d’Assise d’Appello, Presidente Muscolo e Campagna a latere, ha rilevato, in accoglimento dei rilievi della difesa che l’orario della morte non era quello indicato in sentenza di primo grado, ma che l’omicidio era avvenuto alle ore 21,30, quando nell’appartamento della vittima si trovava altra persona, mentre Zampaglione e sua moglie si trovavano presso la loro abitazione al telefono. La prova fornita dalla difesa in sede di appello ha consentito di evidenziare le enormi lacune istruttorie e l’inesistenza di qualsivoglia prova che potesse portare ad una condanna degli imputati.

La Corte d’Appello, nell’esaminare siffatte analitiche circostanze ha escluso che Zampaglione e la moglie avessero manipolato elementi indiziari a loro carico, in quanto erano spinti piuttosto «dalla determinazione di non rimanere impigliati nel meccanismo giudiziario e comunque di fornire un contributo alla vicenda».

Tale circostanza ha indotto la Corte d’Appello a ritenere doveroso risarcire Filippo Zampaglione non solo per il periodo di detenzione domiciliare ma anche per le difficoltà a curarsi conseguite. A ciò va aggiunto che l’accusa ingiusta di aver ucciso il padre della moglie «ha inciso in modo altrettanto pesante sulla reputazione di un soggetto abitante in un piccolo centro di provincia, facendolo apparire quale autore di un delitto particolarmente infamante».

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