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Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho

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FIRENZE – Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, già procuratore capo a Reggio Calabria, durante la conferenza stampa relativa alla maxi operazione (in realtà si tratta di due operazioni collegate, l’operazione Martingala a Reggio Calabria e Vello d’Oro a Firenze) che ha portato a decine di arresti tra Reggio Calabria e Firenze ha precisato come sia rilevabile «un sistema economico complice e consapevole» nel quale la ‘ndrangheta «in questo caso non ha bisogno di usare violenza ed esercitare intimidazioni perché assorbe la parte dell’economia ‘legale’ attraverso il sistema del guadagno, il sistema delle false fatturazioni, sistemi che consentono alla ‘ndrangheta di coprire le proprie ricchezze che provengono da traffici illeciti».

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De Raho ha poi aggiunto come «le cosche operano, sia nel mandamento ionico, che in quello tirrenico che a Reggio Calabria, attraverso accordi economici che consentono loro di fare affari con meccanismi societari che gli consentono di ottenere ulteriori guadagni» e «il quadro è preoccupante sia in Toscana che in altre regioni del Centro-Nord».

Il procuratore nazionale antimafia sottolineato, infine, che «l’economia è a rischio se non si pone attenzione alla provenienza del denaro».

ECCO GLI IMPRENDITORI COINVOLTI E GLI APPALTI COMPROMESSI

L’INCHIESTA VELLO D’ORO

L’inchiesta ‘Vello d’Oro’ della Direzione distrettuale antimafia e dei Comandi provinciali dei carabinieri e della Guardia di finanza di Firenze ha portato all’arresto di 14 persone in Toscana e in Calabria, ha svelato meccanismi di riciclaggio di capitali ‘sporchi’ di cosche della ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria con imprese del distretto del cuoio, nelle zone di Fucecchio e Santa Croce sull’Arno.

Secondo le indagini si tratta di società conciarie sane i cui imprenditori avrebbero preso accordi con esponenti in Toscana della ‘ndrangheta per rafforzare la liquidità e per ottenere vantaggi sull’Iva tramite il pagamento di false fatture per operazioni commerciali inesistenti. Il denaro ottenuto dagli esponenti della ‘ndrangheta in Toscana sarebbe provento di illecito e veniva rimborsato a un tasso usurario medio del 9,5%. L’inchiesta ‘Vello d’Oro’ indaga dieci imprenditori toscani di cui sei messi agli arresti dal gip Paola Belsito.

«Il quadro è preoccupante sia in Toscana sia in altre regioni del Centro-Nord – ha commentato il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho – La ‘ndrangheta si presenta agli imprenditori apparentemente onesti con il miraggio di procurare guadagni migliori e di far raggiungere loro obiettivi più alti. Abbiamo il dovere di fare attenzione all’apertura di queste presunte ricchezze in un momento come quello attuale dove le imprese faticano ad andare avanti».

In totale, nell’inchiesta di Firenze, sono 18 le persone indagate nei cui confronti vengono contestate le ipotesi di reato che vanno dall’associazione per delinquere, all’estorsione, al sequestro di persona, all’usura, al riciclaggio ed autoriciclaggio, all’abusiva attività finanziaria e all’utilizzo/emissione di fatture per operazioni inesistenti nonché al trasferimento fraudolento di valori.

Il provvedimento giudiziario eseguito dai militari appartenenti alle due Forze di Polizia è stato emesso a conclusione di complesse ed articolate indagini, avviate a seguito di una denunzia di un imprenditore toscano in quanto vittima di un’attività di usura e di minacce operate da Cosma Damiano Stellitano l’imprenditore calabrese, di fatto domiciliato a Vinci (FI), poiché, a fronte di un prestito ricevuto di 30.000 euro, avrebbe dovuto restituire una somma di denaro maggiorata di interessi (usurari) corrispondenti al 17% in un solo giorno (per un importo pari ad oltre 35.000 euro).

Le investigazioni, svolte anche con l’ausilio di indagini tecniche, coordinate dal Procuratore Ettore Squillace Greco (applicato alla DDA di Firenze) e dal Sostituto. Procuratore Giuseppina Mione, sono state condotte inizialmente dal Reparto Operativo dei Carabinieri di Firenze e, a partire dal novembre 2014, codelegate anche al Gico del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Firenze, riuscendo ad individuare un sodalizio criminale ben strutturato di cui facevano parte, tra gli altri, soggetti legati ad elementi di spicco delle famiglie ‘ndranghetiste dei “BARBARO” e dei “NIRTA”, attive nella zona del litorale jonico della provincia di Reggio Calabria.

Il prosieguo delle indagini ha permesso di individuare un’articolata organizzazione criminale di origini calabrese, operante in Toscana ed in Calabria, nonché in diversi Stati europei quali la Slovenia, la Croazia, l’Austria, la Romania ed il Regno Unito costituita attorno a Antonio Scimone, soggetto risultato a capo di una rete di aziende costituite ad hoc per generare voluminose movimentazioni finanziare (pagamenti di fatture relativi a costi fittizi) “strumentali” per costituire ingenti quantità di denaro contante a disposizione dei sodali, da destinare a nuove attività illecite ovvero da riciclare/reimpiegare in attività commerciali.

Più in particolare, «Scimone, con collaborazione di Stellitano, di Giuseppe Nirta (nipote dell’omonimo capo indiscusso della ‘ndrina “La Maggiore” di San Luca, ucciso nel 1995) e di Antonio Barbaro, faceva confluire in conti correnti esteri intestati a società “cartiere” rilevanti somme di denaro da riutilizzare come prestiti di denaro contante ad imprenditori conciari toscani, questi ultimi gravemente indiziati di essere ben consapevoli della provenienza illecita del denaro e complici del sistema criminale ideato dai menzionati calabresi».

ECCO I DETTAGLI DELL’INCHIESTA

Nel dettaglio, «gli imprenditori toscani, infatti (indagati anche per il reato di riciclaggio), restituivano ai loro “finanziatori” le somme di denaro ricevute in prestito, maggiorate di interessi celando la dazione di denaro attraverso il pagamento di false fatture di acquisto di pellame, emesse da una S.r.l con sede nel pisano e materialmente predisposte dal contabile di fiducia di Stellitano. In questo modo, gli imprenditori toscani – alcuni dei quali destinatari della odierna misura cautelare in carcere (3 persone) o domiciliare (3 persone) – si finanziavano ottenendo denaro contante (da utilizzare principalmente nella retribuzione “in nero” dei dipendenti) e, annotando in contabilità le citate false fatture, abbattevano gli utili delle proprie aziende (quindi pagavano una minore imposta sul reddito delle persone giuridiche), registravano un credito IVA fittizio e, quindi, scaricavano sull’erario il “costo” del finanziamento illecitamente ottenuto. In ultima analisi, il sistema fraudolento così congeniato faceva gravare sulle casse dell’Erario il costo del denaro contante ricevuto dagli imprenditori toscani e, di converso, il profitto illecito dei calabresi. Infatti, il “prezzo” pagato dagli imprenditori toscani per il finanziamento ottenuto era, di fatto, celato sotto forma di IVA corrisposta per il pagamento delle menzionate fatture false (imposta poi portata a credito nelle liquidazioni periodiche dagli stessi imprenditori) mentre le società emittenti le citate fatture non hanno mai provveduto a versare l’IVA incassata».

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