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Massimiliano Carbone

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LOCRI (REGGIO CALABRIA) – Chissà con chi avrebbe festeggiato ieri il suo quarantottesimo compleanno Massimiliano Carbone. Forse oggi sarebbe sposato e avrebbe accanto una compagna e dei figli. Quale sarebbe stata la sua vita, stroncata a soli 30 anni da una mano mafiosa, mentre si trovava nel cortile di casa appena tornato con suo fratello da una partita di calcetto, possiamo solo provare ad immaginarla. Così come dal 24 settembre del 2004, data della morte del giovane di Locri, la verità sulla sua esecuzione rimane un’ipotesi mai riconosciuta da un tribunale nonostante le rivelazioni dei pentiti su esecutori e mandanti.

Era un ragazzo timido Massimiliano e dotato di una particolare sensibilità. Non amava mettersi in mostra, anzi, si nascondeva spesso dietro gesti lievi, impercettibili ma ricchi di significato. Agiva sempre seguendo i moti del cuore e gli ideali che lo spingevano ad andare incontro alle persone più fragili. La madre Liliana conosceva bene suo figlio ed è per questo che dal giorno della sua scomparsa, continua a chiedere, inascoltata, verità e giustizia.

«L’ultimo compleanno che abbiamo festeggiato insieme, Massimiliano compiva trent’anni – ricorda Liliana -. Tra i miei figli lui era il più affettuoso, si avvicinava a me perché voleva i baci, non uno soltanto, ma più baci. Era grande, molto alto, e io per raggiungerlo dovevo alzarmi sulla punta dei piedi. Erano tante le occasioni quotidiane in cui lui mi chiedeva anche solo un abbraccio. Era come un bambino Massimiliano e rispettava la vita in tutte le sue forme».

Sua madre racconta la sua passione per i fiori, la tenerezza con cui si avvicinava agli animali e l’attenzione che aveva nei confronti delle persone sofferenti, che aiutava spesso attraverso la donazione del sangue e dando persino la disponibilità al prelievo del suo midollo se compatibile con qualche paziente degli ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Pensare che la morte violenta di questo ragazzo sia stata archiviata, rimossa dalle coscienze, rinnova il dolore per la sua perdita e rende ancora più ingiusta la sua tragica fine.

«La giustizia dei Tribunali sulla morte di Massimiliano non è arrivata e non arriverà mai – continua Liliana -. Questa è un’affermazione che faccio con grande sicurezza perché le persone coinvolte nella sua morte violenta sono state tante, qualcuna non appare e non perché abbia avuto un ruolo secondario, ma perché ha dato mandato ad altri e questi altri non ci sono più per tante ragioni: alcuni sono in carcere e altri sono morti. Ma la verità l’ha detta Massimiliano attraverso la sua comprovata paternità. E quando gli indagati hanno chiesto in maniera pretestuosa ed oscena la riesumazione del corpo di mio figlio, i carabinieri non sono riusciti neanche a salire in casa mia perché piangevano. Io ho firmato le carte appoggiata su un motorino nel cortile e non era mai accaduto che una madre dovesse cambiare bara e lenzuola al proprio figlio. Un orrore. E questa è la vergogna di Locri, il paese della legalità senza memoria. Non riesco a maledire ma neanche a perdonare. La parola perdono deriva dal latino ed è composta da “per” e “dono”, io in regalo posso dare quello che è mio ma la vita di mio figlio era la sua, è a lui che qualcuno deve chiedere perdono».

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