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Degrado al retroporto di Gioia Tauro

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A Gioia Tauro storia di un polo industriale mai nato e che doveva nascere nel retroporto, ora luogo dell’incuria e dell’abbandono

GIOIA TAURO (REGGIO CALABRIA) – Dalla collina in località Carozzo – Nolio a Rosarno ogni tanto scivola qualche pezzo di tomba e dicono anche frammenti di ossa umane del periodo greco. Roba del quinto secolo avanti Cristo. Sono in pochi a capire il valore di quei resti. Qui, negli anni 20 del secolo scorso l’archeologo Paolo Orsi, scoprì la necropoli di Medma. Quella collina venne sventrata a metà dei primi anni 2000 per allargare l’agglomerato industriale nei pressi dell’attuale Rosarno. Centinaia di tombe furono trovate e distrutte. Il sito avrebbe dovuto essere conservato così com’era, ma, per fare spazio ai sogni dei vivi sono stati espropriati i morti. Il sogno, poi trasformato in incubo, di ospitare fabbriche è finito nel dimenticatoio.

Dicono gli esperti di logistica che il retroporto di Gioia Tauro sia un unicum europeo. Perché nessun porto industriale ha immediatamente alle spalle aree così grandi disponibili agli insediamenti industriali. Sono oltre 800 ettari a ridosso del porto più grande d’Italia nei quali doveva nascere un polo industriale tra i più produttivi del paese. Il polo non è mai nato e oggi, lì c’è un deserto. Un’area immensa, infrastrutturata da decenni tra i comuni di Gioia Tauro, San Ferdinando e Rosarno dove il sonno dei morti è stato bruscamente interrotto. Un sacrificio inutile e pure dannoso.

Ne abbiamo scritto tante volte, ma infruttuosamente. Per capire l’abbandono in cui versa l’area del retroporto di Gioia Tauro, inserita nella Zes, basta farsi un giro e osservare gli scempi ambientali, le strade dissestate, i marciapiedi ormai coperti dalle erbacce, i lampioni dell’illuminazione divelti, la rete elettrica distrutta e tanti, ma tanti, capannoni abbandonati. Un senso di sconforto e riprovazione assale il visitatore guardando a quelle distese a perdita d’occhio, dove una volta si coltivavano i migliori mandarini e arance d’Italia. Un deserto, a tratti maleodorante per i cumuli di rifiuti che si incontrano. Piccole discariche frutto del senso di abbandono e della rassegnazione dei vivi e pure dei morti. Qui, tutto è stato lasciato al suo destino di terra di nessuno, desolatamente vuota e senza vita. Eppure, si continuano a narrare i risultati ottenuti con la Zes: la Zona Economica Speciale un tempo regionale ma adesso del Meridione. Del resto, quale imprenditore pazzo potrebbe pensare di insediarsi in questo deserto, dove le fogne non funzionano e l’illuminazione nemmeno? Dove tutto sembra essere morto e dove l’unica “area viva” è quella della tendopoli che ospitata i migranti. Baraccopoli più che tendopoli, con la gente che vive tra cumuli di rifiuti, animali randagi, senza servizi igienici e quasi senza speranza. Il luogo dell’indifferenza e del non senso che meriterebbe un approfondimento a parte. Gente che c’è e che, però, è meglio non vedere.

Quelle poche aziende presenti ed ancora vive in quell’area alzano muri, si barricano, cercando di andare avanti tra distese di progetti industriali falliti, forse prima ancora di nascere, pezzi di terra destinati all’industria che vengono venduti e rivenduti ma che, alla fine, restano da reinventare. Complessivamente in quell’area ci sono circa 1 milione di metri quadrati coperti, di capannoni sparsi qua e là, nell’abbandono più totale. Un’area senza sistemi di sicurezza, senza recinti e senza barriere. Adesso, dicono dalla Zes, verranno investiti 20 milioni di euro per rifare gli impianti di videosorveglianza, che sicuramente faranno la stessa fine di quelli installati tempo fa.

Da queste parti nessuna azienda ha mai utilizzato gli incentivi della Zes a differenza di altre aree della Calabria o del Sud. E tutto resta fermo, immobile, come se il tempo debba in tutti i modi fermarsi, quasi per la vergogna. Nessun progetto di rilancio, di riordino, nessun piano di normalizzazione, nemmeno sulla carta. Nulla di nulla. E così, quest’area, che se fosse altrove ospiterebbe chissà quante attività industriali, con i prodotti che vanno e vengono, imbarcati lì a due passi in linea d’area, sulle banchine dello scalo portuale, nei container che arrivano e ripartono, quest’area resta nel dimenticatoio delle coscienze delle istituzioni locali, regionali e nazionali. Ventotto anni sono passati dall’apertura del porto e quelle aree industriali, ben tre (recita quel che rimane della segnaletica verticale), costate centinaia di miliardi di vecchie lire, restano lì a consumare parole di circostanze e illusioni tra convegni e passerelle. Chissà se i morti dell’antica collina, un giorno troveranno davvero pace consolandosi vedendo i vivi produrre per il benessere del territorio?

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