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REGGIO CALABRIA – Una storia, quella di Giuseppe Ficara, 42 anni, di Reggio Calabria, che inizia nel lontano 2007. Ma, probabilmente, più che di una storia, sarebbe meglio parlare dell’inizio di un incubo. «Sedici anni fa – racconta Ficara a questo giornale – io e la mia compagna facemmo domanda per un alloggio popolare. Di tempo, ecco, ne è passato, ma ad oggi, una casa, ancora non l’abbiamo ottenuta».

Un’intera famiglia che pertanto resta sospesa. In attesa di un diritto che sembra nessuno voglia riconoscere. «Tra l’altro, non siamo più soli, con Stefania – continua Ficara – siamo diventati genitori di un bambino che ora ha dodici anni. Dove viviamo? In una stanza di 4 metri quadri della casa di mia madre. Per fortuna che c’è lei, perché altrimenti non sapremmo proprio dove andare: sono stato costretto a vendere anche la mia macchina per pagare le cure di nostro figlio negli ospedali di Pisa e Firenze».

Il figlio di Giuseppe e Stefania, infatti, oltre a trovarsi nello spettro autistico, ha un tumore benigno al cervelletto e ha bisogno di cure costanti. «Mi chiede sempre quando potrà avere, al pari dei suoi compagni, una cameretta tutta sua – racconta Ficara – E io gli rispondo che sì, presto l’avrà». Una bugia? La risposta, in questo caso, spetta agli enti, a chi si occupa di edilizia residenziale pubblica.

«Come dicevo – aggiunge l’uomo – nel 2007 facciamo domanda per un alloggio, con la nascita del bambino riusciamo anche a posizionarci meglio in graduatoria rispetto al passato. Ma – chiosa Ficara – nel 2018 tutto cambia: viene pubblicata una nuova graduatoria, quella originaria non è più valida. Ricominciamo tutto daccapo e la faccio breve, dopo una nuova domanda che presentiamo, ad oggi, siamo terzi, ma viviamo sempre da mia madre: di casa popolare non ne abbiamo vista neanche mezza».

Per sopravvivere, Giuseppe e Stefania vanno avanti come possono. «Ho lavorato per 5 anni al Gom per la ditta di pulizie: un part-time di 12 ore a 200 euro al mese – racconta Ficara -, poi non più, il lavoro si è interrotto e ora siamo in causa con l’azienda. Ho fatto di tutto, dal banconista al magazziniere e continuo a mandare Curriculum ovunque. Anche la mia compagna lo stesso: ora lavora su chiamata per svolgere mansioni domestiche. Io ho sì – dice – il Reddito di cittadinanza, sono 258 euro al mese, ma, realmente, preferirei lavorare, lavorare come si deve. E in tutto questo sa qual è la beffa? Non ci riconoscono – termina – gli assegni per nostro figlio». A volte gli incubi, lo si diceva, si vivono ad occhi aperti.

«Siamo stanchi e stufi – ribadisce Giuseppe Ficara – Siamo stanchi di aspettare un alloggio, davanti a centinaia di abitazioni vuote. Cinque mesi fa ho pure chiesto un incontro al sindaco facente funzioni Brunetti per spiegargli questa mia, nostra, odissea con le case popolari, ma ancora non sono stato contattato».

Eppure, in un Paese quantomeno normale, nessuno dovrebbe aspettare per un proprio diritto, per una prerogativa importante. Più si attende, più a comprimersi è la dignità di tutti.

La voce dell’osservatorio sul disagio abitativo

«I Comuni della nostra Calabria dovrebbero quantomeno monitorare lo “stato” delle case popolari. Mi spiego: può essere che, a seguito dell’assegnazione dell’alloggio, si decada dai requisiti strumentali ad ottenerlo e a mantenerlo e, dunque, così facendo, si verrebbero a creare le condizioni “ideali” per far scorrere le graduatorie».

Giacomo Marino, membro dell’Osservatorio sul disagio abitativo, non ha dubbi. «Uno dei motivi – ribadisce – per cui c’è gente in “fila” da anni, gente che non riesce ad avere una casa propria, è  questo: gli enti comunali non verificano le situazioni caso per caso e, pertanto, permettono implicitamente pratiche illegali: può essere, infatti, che chi non ha più bisogno dell’alloggio, per l’appunto a causa della decadenza dai requisiti disciplinati nella legge regionale numero 32 del 1996, più volte modificata e aggiornata, lo venda o lo affitti per trarne profitto. Nel frattempo il territorio è pieno di senzatetto. E a Reggio Calabria, per fare un esempio, gli alloggi popolari sono circa 6mila (2mila del Comune e la parte restante dell’Aterp) e su di essi gravitano moltissime situazioni di potenziale decadenza. Una vera e propria ingiustizia».

Ma non finisce qui. Le criticità sono, infatti, anche altre. Marino le illustra in questi termini: «Il canone mensile che l’assegnatario dell’alloggio deve corrispondere è una entrata, per il Comune o per l’Aterp, vincolata: quelle risorse servono, cioè, a ristrutturare e manutenere gli stessi alloggi.

Sfortunatamente, però, questo spesso non accade e i Comuni usano le entrate in questione per realizzare ulteriori opere. Il testo unico degli enti locali lo consente sì, ma in via del tutto temporanea: a Reggio, per fare un esempio specifico, parliamo di dieci anni di risorse mai ripristinate. Significa – chiosa il membro dell’Osservatorio calabrese –  che, in numerosi casi, vista la scarsa manutenzione e le condizioni di inabitabilità manifeste degli alloggi, molte famiglie assegnatarie regolari hanno dovuto abbandonare la casa».

Un’ulteriore questione spinosa secondo Giacomo Marino attiene, poi, all’Aterp. «Siamo l’unica regione in tutta Italia – spiega ancora l’esponente dell’Osservatorio sul disagio abitativo – che ha un Aterp regionalizzato e, quindi, lontanissimo dai territori e dalle sue problematiche. Questa proposta, quella non a caso volta alla regionalizzazione degli enti che si occupano di edilizia pubblica residenziale, era stata avanzata anche in altre parti del Paese, ma per fortuna i sindacati, facendo opposizione, l’hanno bloccata. Da noi le sigle sindacali – continua Marino – ci sono eccome, ma non parlano mai né si interessano di queste questioni, legate alle case e agli alloggi popolari. Un grande vuoto, un vuoto inspiegabile. Anche perché – conclude sempre Giacomo Marino – se non ci fossimo noi, tra movimenti,  associazioni e attivisti, chi penserebbe ai diritti dei più fragili? Davvero non lo so».

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