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Don Roberto Meduri nella tendopoli di San Ferdinando (1)

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Arrivano in motorino, e chi ci capita viene circondato, picchiato, lasciato a terra, è di nuovo caccia all’immigrato a Rosarno


Attaccano la sera, quando il grande stradone della frazione Testa dell’Acqua, dove si affaccia il “villaggio” dei container, è al buio. Arrivano in motorino, e chi ci capita viene circondato, picchiato, lasciato a terra. Ma accade anche sulle strade che portano alla tendopoli. È di nuovo caccia all’immigrato a Rosarno, come non accadeva da anni, dalla grande rivolta del 2010, quando il paese fu messo a ferro e fuoco e, prodigio, vennero qui a fare capolino la politica dei palazzi e delle ruspe, nonché i media di tutto il mondo. Vere e proprie spedizioni punitive, anche oggi.

«Uno si mette davanti, l’altro dietro, ti fanno cadere dalla bicicletta e cominciano a picchiare con ciò che trovano, anche bastoni», racconta Issa, trentottenne del Gambia. Sbarcò a Lampedusa dieci anni fa, veniva dall’ex colonia inglese che è uno dei paesi più piccoli del continente, a ovest dell’Africa, dove nonostante la fine della feroce dittatura di Yahya Jammeh, corruzione e povertà la fanno da padroni. Da quell’inferno a quello italiano dell’accampamento di San Ferdinando, zona industriale numero due, alle spalle del grande stabilimento della Op Spagnolo, che produce e distribuisce agrumi.

La tendopoli sembra Kakuma, il campo profughi più grande del mondo al confine tra Kenya e Sud Sudan. Un non luogo forse peggiore quello di San Ferdinando. Tra disagi e fango, ospita oltre un migliaio di persone. “La vita sempre uguale qui – racconta Issa –, ci hanno finalmente dato la corrente, c’è la luce, ma non ci si può riscaldare dentro. Fa freddo, è molto umido. Si dorme pochissimo, siamo in sei nella mia tenda. Ci mancavano solo le botte adesso”.

Poche sere fa qua vicino, proprio sotto agli occhi delle telecamere, hanno picchiato due suoi amici, un gambiano e un ragazzo del Mali. Sono finiti in ospedale. L’aria che tira è pesantissima. Issa sta lavorando a Taurianova, raccoglie agrumi, come la maggior parte della grande comunità di africani per lo più provenienti da Gambia, Ghana, Costa d’Avorio e Mali. Tra i quaranta gradi d’agosto o il gelo di febbraio, sempre al limite. Chiusi in macchina se diluvia, poi di nuovo nei campi e sugli alberi appena spiove. Ogni cassetta di mandarini due euro, uno invece per le arance, si riesce quando possibile a fare anche 50 euro al giorno. Un decennio fa per otto o nove ore di fatica spesso non ne racimolavi trenta.

Ci sono anche proprietari terrieri che non pagano da mesi. Così qualche bracciante, stanco, ha minacciato di denunciare. “Forse queste rappresaglie sono legate a questo”, dice don Roberto Meduri, il sacerdote che da anni assiste e si batte per questi ragazzi. È di casa alla tendopoli; ci arrivava fino a pochi giorni fa con la sua Colt scassata e “oggi definitivamente morta”, ci dice. Era quella con la quale ogni domenica portava a giocare, stipati all’inverosimile, i calciatori del suo Koa Bosco, la squadra di braccianti che era riuscito a iscrivere al campionato di terza categoria, poi vinto dagli africani. Andavano fortissimo. Un sogno spezzato, però. Soldi che mancavano, violenze e razzismi in campo e fuori, così don Roberto decise di spegnere la luce.

“I pestaggi si ripetono ormai da settimane – dice, sconsolato –, succedeva nella zona della tendopoli, e allora ci furono denunce e processi. Oggi anche ai container di Testa dell’Acqua. Chissà, forse c’è un collegamento con la minaccia di denuncia dei mancati pagamenti da parte di alcuni tra i ragazzi che raccolgono agrumi, c’è chi avanza parecchi soldi, chi 800 e chi addirittura anche oltre duemila euro. Per loro e per le rispettive famiglie in Africa sono vitali”.

La domanda è: mandano scagnozzi a pestare gli immigrati in modo da terrorizzarli, riducendoli a tacere, a non denunciare? Keita è arrivato sette anni fa dal Senegal, lui sta nei container. “Non lo so – risponde –, ma hanno iniziato di nuovo, e sempre più spesso. Un mio amico per esempio era sulla bici giorni fa e lo hanno tenuto dalla camicia, buttato giù. Erano in due, uno guidava la macchina, l’altro è sceso e lo ha fatto cadere. Ieri sera hanno picchiato un altro ragazzo ai container. Così non va bene, non si può continuare così, qualcuno deve difenderci. Qualcosa bisognerà fare”.

Don Roberto è preoccupato, teme l’innescarsi, lento, di una nuova ribellione. “Sarebbe un dramma, e le vittime ancora e sempre loro. Ho paura, passerebbero dalla ragione al torno. Ma qui la situazione sta diventando davvero difficile. La dinamica è quella della rappresaglia notturna, come accadeva quando aggredivano i miei giocatori della Koa Bosco. Uno dei miei fu massacrato e oggi non può più camminare”, ci ricorda.

Senza la sua Colt, è costretto a fare avanti e indietro tra parrocchia e tendopoli. Chiede passaggi, o un’automobile in prestito. “Quando è urgente, qualcuno da portare in ospedale per esempio”, spiega Meduri. Pensa di ripristinare il vecchio pulmino. Quando le trasferte erano in paesi più lontani da Rosarno usava quello: “Toglievamo tutti i sedili e si andava a fare la partita. La domenica dovevo recuperare i miei ragazzi nei campi. A poche ore dalla gara alcuni erano ancora sugli alberi e per farli scendere ci voleva la mano di Dio, ma loro sfruttavano ogni minuto pur di guadagnare qualcosa in più”.

Ci vuole anche nella tendopoli, la mano di Dio. E nemmeno basta, evidentemente, nonostante il suo “inviato”, don Roberto, che va in giro con i sandali e senza calzini. Il campo è sempre in emergenza. Il Medu, Medici per i diritti umani, che dal 2013 opera nella Piana di Gioia Tauro e garantisce anche assistenza legale ai migranti, denuncia condizioni di degrado e abbandono (LEGGI). Descrivendo il quadro come “inguaribile”. Ma chi raccoglie l’appello? Ben cinque milioni e mezzo di euro sono stati investiti per la costruzione di alloggi. Regolarmente chiusi. Li abbiamo visti anche noi: impacchettati, lasciati al loro destino, già vandalizzati come da prassi.

“Hanno costruito per noi, perché ci lasciano nelle baracche?”, si domanda Yaya. Era il capitano della Koa Bosco, arrivò qui molti anni fa e parla un italiano quasi perfetto. : “È razzismo, inutile girarci intorno. Pensano di poter fare quello che vogliono di noi”, dice amareggiato. Lui è della Costa d’Avorio, il suo paese ha appena vinto la Coppa d’Africa per la terza volta. Ma “Io capitano” Yaya non riesce a godere di questo successo.

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