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L'area del porto di Gioia Tauro

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GIOIA TAURO (REGGIO CALABRIA) – Più di qualcuno non ha capito quali sono i rischi reali che il porto di Gioia Tauro corre e quali sarebbero gli effetti che comporterebbe una sua chiusura per la tenuta economica della Calabria e non solo. Sullo scalo calabrese si sta abbattendo uno tsunami epocale che non può essere risolto solo a forza di comunicati tanto per lavarsi la coscienza. Più di qualcuno sta sottovalutando il problema pensando che esso possa risolversi solo con una telefonata a Roma o a qualche europarlamentare.

L’entrata in vigore del sistema cosiddetto Ets applicato al trasporto marittimo rischia non solo di far lievitare i costi dello stesso e di non raggiungere l’obiettivo di minori emissioni di anidride carbonica in atmosfera, ma anche che questo regime applicato al transhipment di contenitori vada a regalare un incredibile vantaggio competitivo a porti posti al di fuori dell’Europa e, paradossalmente, a far aumentare le emissioni dannose. E nonostante l’allarme sia stato lanciato da tempo ormai si è quasi alla vigilia dell’entrata in vigore della normativa che provocherà un terremoto che cancellerà tutto l’impianto di progettualità dello sviluppo calabrese fin qui ipotizzato.

L’estensione del regime Ets al trasporto marittimo nasce nel 2021, con una proposta della Commissione Europea contenuta all’interno del pacchetto Fit for 55. Per scongiurare il rischio di elusione, la Direttiva delega alla Commissione di mettere a terra la cosiddetta “regola delle 300 miglia” che esclude dalla definizione di “porto di scalo”, rilevante per la determinazione della tratta ai fini del calcolo Ets, i porti situati nell’arco delle 300 miglia nautiche dai confini della Unione in cui la quota di trasbordo di container superi il 65% del traffico totale di container. In questi porti la toccata non verrebbe conteggiata. Pertanto, il regime Ets (che si applica alle emissioni realizzate nella tratta immediatamente precedente e successiva al porto europeo) vedrebbe conteggiato non il 50% delle emissioni registrate dallo scalo nei porti situati nelle 300 miglia e fino al successivo scalo UE, ma nell’intera tratta percorsa dal porto extra-UE immediatamente precedente (per esempio un porto cinese) fino al primo porto europeo. Una compagnia marittima, quindi, che ha eletto un porto Ue per le proprie attività come ha fatto Msc a Gioia Tauro ed effettuato cospicui investimenti per rendere tali impianti efficienti, (a Gioia Tauro il gruppo Msc ha già speso quasi 200 milioni di euro) dovrà mettere in conto che affronterà costi operativi ben maggiori dovuti al regime Ets rispetto ai propri competitor che avessero prescelto di operare nei porti del nord Africa a Tanger Med o Port Said.

«Per spiegare meglio quello che potrebbe accadere – spiega Alberto Rossi segretario generale di Assarmatori – basterebbe dire che se una nave che parte da Singapore (porto non Ue) scala Gioia Tauro (porto Ue) e poi va ad Anversa (altro porto Ue), la compagnia si troverà a pagare il 50% delle emissioni generate fra i primi due porti e il 100% di quelle fra i secondi due. Ma se lo scalo intermedio fosse a Port Said o a Tanger Med, ecco che anche sulla seconda tratta pagherebbe il 50%. La differenza per una nave di medie dimensioni di circa 8000 Teus di portata è di circa 100 mila euro a viaggio (su un totale di 450 mila euro). Le navi impegnate su questi trade sono migliaia, circostanza che porta il gap competitivo a decine di milioni di euro all’anno».

Ma non è questo il vero problema dice ancora Rossi: «Circa il 50% del traffico intercontinentale negli hub è rappresentato da linee che collegano la regione Asiatica con le Americhe. La nave che parte da Singapore, scala Port Said e poi si dirige a New York non pagherà nulla, visto che verrebbero toccati tre porti non Ue. Se lo scalo intermedio fosse Gioia Tauro, invece, ecco che dovrebbe pagare il 50% su entrambe le tratte per un costo che si aggira sui 500 mila euro a toccata. Questa è la vera differenza insostenibile». Si parla di centinaia di milioni di euro/anno di extra costi che, se non aboliti con idonee modifiche alla Direttiva, comporteranno la de-localizzazione delle linee di transhipment attualmente nei porti hub del mediterraneo Gioia Tauro in testa ma anche Malta, Algeciras e Sines presso porti nord africani compresi quelli algerini che ovviamente di fronte a questo autogol degli europei hanno già l’acquolina in bocca. Questo comporterà, se non si interviene adesso con un riesame della Commissione Ue, la letterale e sostanziale chiusura degli scali di transhipment del Mediterraneo europeo con perdita di posti di lavoro, ma anche mancanza di controllo da parte del nostro Paese degli snodi fondamentali della logistica.

Ci sono gruppi che controllano gli scali a rischio che stanno rivedendo al ribasso i budget per il prossimo anno anche in casa nostra. Arrivare entro un anno o due a chiudere Gioia Tauro significherebbe perdere quasi 2 mila posti di lavoro diretti e altrettanti nell’indotto, significa perdere il 50% del privato della regione, ma significherebbe dire addio, soprattutto ad ogni sogno di sviluppo calabrese. Il tempo a disposizione è poco e occorre agire in fretta. Tanto che viene da chiedersi perché non organizzare un momento di sensibilizzazione prima che sia troppo tardi davanti a quel porto che di manifestazioni ne ha vista tante?

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