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Claudio Baglioni

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La valigia, tra i tanti elementi scenografici. E dentro questa valigia – simbolo del viaggio per eccellenza – note e parole, memorie di concerti o di sale d’incisione.

Lo avevamo lasciato sul palcoscenico del festival di Sanremo e lo ritroviamo “Al Centro” con la seconda parte del tour che lo vede protagonista in alcune delle principali arene indoor d’Italia ma anche al Forest National di Bruxelles e al Hallenstadion di Zurigo.

Lui è Claudio Baglioni: 50 anni vissuti in musica, 60 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Oggi Baglioni è ancora live con questo tour che ha nel palco posizionato al centro il suo cuore pulsante. Una scena unica, composta da una pedana computerizzata posta nella parte centrale, che crea movimenti verticali di diverse misure e forme, per un palco di 450 mq in continua evoluzione capace di trasformarsi a seconda dei brani eseguiti. Così il pubblico disposto a 360 gradi può rivivere, insieme all’artista mezzo secolo di musica. Tanti anche gli elementi visivi e scenografici e una scaletta costruita in ordine cronologico.

Di più. Ai quattro angoli del palco sono posizionati i 21 musicisti polistrumentisti che, grazie alla presenza di fiati e archi, permettono alle canzoni di avere arrangiamenti nuovi. Non solo, ad arricchire ulteriormente la scena 26 artisti di altre discipline tra performer e acrobati. Come dire le premesse per uno spettacolo ricco e sorprendente ci sono tutte. La regia teatrale e le coreografie portano la firma di Giuliano Peparini.

E “Al Centro” fa tappa anche in Calabria per una doppia data in riva allo Stretto: 26 e 27 marzo al PalaCalafiore di Reggio Calabria. Due, dunque gli attesissimi live calabresi di Claudio Baglioni.

Baglioni, è ancora live ed è ancora “Al Centro” tour, premiato tra l’altro come “BestShow 2018” dalla rivista Sound&Lite. Un super show speciale per celebrare i suoi 50 anni di carriera. Cosa significa per lei calcare il palcoscenico dal vivo, incontrare il “suo” pubblico e mettersi in gioco in un concerto?

«Il momento più bello. Quello che dà senso e valore a tutto. Alla fatica della scrittura, innanzitutto. L’ispirazione esiste ma ti deve trovare al lavoro, diceva qualcuno. Per evitare che, quando arriva, non mi trovi sono sempre al lavoro. Anche quando guardo fuori dalla finestra. Alla fatica della ricerca del vestito più adatto ad ogni canzone. Le canzoni sono come figli: ognuno è diverso, ognuno ha la sua identità, il suo stile e deve avere un abito con il giusto taglio – l’interpretazione, la giusta stoffa – l’arrangiamento, e le giuste sonorità – i colori. Ma il concerto è soprattutto il momento nel quale la musica vive e fa vivere chi suona e chi ascolta. Non a caso gli anglosassoni lo chiamano “live”. Suonare dal vivo è incontrarsi, entrare in contatto, fisicamente e non virtualmente. E comunicare, scambiandosi occhi, voci, cuori, energia. Un momento unico e irripetibile – accade soltanto lì e solo in quel momento – che genera emozioni uniche e irripetibili, che, se non sei lì a condividerle, le hai perse per sempre».

Il tour si chiuderà al Nelson Mandela Forum di Firenze il 26 aprile ed è iniziato il 16 ottobre 2018, dopo le tre anteprime all’Arena di Verona. Poi Sanremo ed ora il secondo set di questa impegnativa “avventura” dal vivo che conta tappe in Italia ma anche all’estero. Ci vuole raccontare com’è stato concepito e costruito “Al Centro”?

«Il centro è il cuore. Luogo ideale, perfetto. Il punto da cui tutto parte e verso cui tutto converge. La musica è stata ed è il centro della mia vita, per questo, ogni volta che posso, la metto “Al Centro”. Così che tutti possano viverla al meglio. Il palco al centro riduce al minimo le distanze. Tutti vedono meglio e – cosa ancora più importante –tutti sentono meglio. Molto meglio, dal momento che l’amplificazione può essere distribuita in maniera molto più capillare ed equilibrata, puntando sulla qualità e non sulla quantità del suono. Non solo: lo spazio scenico diventa più grande e soprattutto, essendo modulare, può assumere forme diverse, trasformandosi da semplice pedana per ospitare artisti, strumenti e attrezzature, in parte integrante dello show. Tutto questo, permette di dar vita a una sorta di “teatro totale”, nel quale suoni, voci, luci, immagini, coreografie e performance, si fondono alla musica, per renderla ancora più intensa, emozionante, affascinante, evocativa. Ancora più capace di farci sognare».

E veniamo alla scaletta, ricchissima naturalmente. Le canzoni, via una dopo l’altra, sono proposte in ordine cronologico. Una sorta di viaggio nel tempo, dunque?

«La scaletta cronologica è una prima assoluta. Nessuno, prima, aveva mai fatto niente del genere. Né qui né fuori di qui. Probabilmente perché è una scelta che presuppone di poter contare su un repertorio sufficientemente vasto e qualitativamente in grado di reggere una sfida del genere. Da quando ho iniziato a immaginare “Al Centro”, ho pensato che l’unico modo di raccontare questi miei cinquant’anni con la musica fosse quello di partire dall’inizio e arrivare al presente, un passo dopo l’altro. Non solo perché le canzoni mi hanno cambiato la vita ma soprattutto perché, a mano a mano che la mia vita cambiava, cambiava anche il mio modo di guardarla e, quindi, di raccontarla attraverso le canzoni. Ci cambiavamo e ci cambiamo reciprocamente. E il modo migliore di raccontare tutto questo è quello di seguire l’ordine cronologico degli eventi. “Strada facendo”, “E tu come stai?”, “La vita è adesso”, “Le ragazze dell’Est”, “Mille giorni di te e di me” non sarebbero mai state le stesse senza le canzoni che le hanno precedute. E nessuna di loro e delle altre sarebbe mai esistita senza “Questo piccolo grande amore”. La strada è la successione non la somma dei nostri passi. E ogni passo è il prodotto del modo nel quale luoghi, fatti, cose e persone che viviamo, interagiscono con noi. Le mie canzoni sono i passi che mi hanno portato fino qui. Senza di loro, non sarei qui, non ci sarei mai arrivato così e certo non sarei la persona che sono».

Cinquanta anni in musica, 60 milioni di copie vendute in tutto il mondo e pezzi che sono autentici cult nella Storia della Canzone italiana. Ma c’è un brano di altri che avrebbe voluto scrivere e interpretare lei?

«Ce ne sono tanti. E tutti belli, ahimè! Lo dico per passione – la passione per la bellezza – non per invidia, un sentimento che, per fortuna, non mi appartiene. Né io appartengo a lui. Ho amato e amo la canzone d’autore francese; la grande canzone italiana degli anni ‘60: Tenco, De Andrè, Paoli, Endrigo… “Il nostro concerto” di Umberto Bindi, ad esempio, è un capolavoro; … il pop anglosassone: “Yesterday”, dei Beatles, che interpretavo nei concorsi di voci nuove, nella versione di Ray Charles; “Sorry Seems To Be The Hardest Word”, di Elton John; “A Salty Dog” dei Procol Harum: straordinaria; Billy Joel: ho scritto persino un testo (“Come sei”) per la versione italiana della bellissima “Just The Way You Are”… La lista è davvero lunghissima. Ma, ripeto: non c’è invidia. C’è ammirazione. E gratitudine».

Sul palco di Sanremo ha anche raccontato del suo primo pianoforte, uno Schulze-Pollmann acquistato alla casa musicale “Vicini” a Sora… Che bambino e poi adolescente è stato Baglioni?

«Un ossimoro. Sono stato – e sono tutt’ora – sognatore molto concreto, un esibizionista molto timido, uno scettico molto fiducioso. “Papà: annunciami che devo cantare!”, ho detto, ancora bambino, a una riunione di famiglia, prima di salire su una sedia per il mio primo concerto. Mi sentivo morire per la paura. Ma sapevo che, se non lo avessi fatto, sarei morto davvero. Dentro, ovviamente. La stessa ‘morte’ che affronto ogni sera prima di salire sul palco e, soprattutto, alla fine dell’ultima data di ogni tour, quando mi sembra che sia la fine di tutto e ho bisogno di trovare subito un’altra idea, un altro sogno alla volta del quale salpare l’ancora e prendere il mare».

Musica e parole l’accompagnano praticamente da sempre, ma se dovesse scegliere tre aggettivi per raccontarsi oggi?

«Timido. Così timido che, a volte, divento persino sfacciato. Ma è solo la maschera dietro la quale cerco di nascondere il mio imbarazzo. Riflessivo. Amo pensare. Mentre suono, mentre corro, mentre leggo o guardo la tv. Mentre nuoto, soprattutto. Il silenzio e il respiro del mare sono perfetti per ospitare le mie bracciate e dare il ritmo giusto e il giusto spazio ai miei pensieri. Dubbioso. Al contrario di ciò che si pensa, credo che il dubbio non sia l’antitesi ma l’anticamera della verità. Chi non dubita, non cerca. E chi non cerca, non trova. Ma, soprattutto, si perde la parte più bella del viaggio verso la verità, che non è la meta ma il viaggio stesso».

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