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L'antropologo Vito Teti

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SE E’ vero che le parole sono importanti, ce ne sono alcune che possono farci immaginare un futuro degno per la Calabria. Una, già individuata da alcuni anni come neologismo dalla Treccani, è “restanza”. L’antropologo Vito Teti l’ha inventata e continua a portarla in giro, riempie le sale e le serate estive, poi torna al suo paese e fotografa le nuvole, a due passi da quella strada chiamata via Toronto che ricorda quelli che partirono, come suo padre. Il suo saggio, pubblicato da Einaudi, è ormai un longseller e può indicarci una strada.

Non solo parole: l’ultimo dato Istat ci dice che la Calabria ha perso 15000 abitanti in un anno, l’economista Cersosimo dice siamo ormai ottocento chilometri di coste e pensionati. Ma partono anche i nonni che vanno a fare da babysitter ai nipoti. Non è un caso che Teti viva nel cuore della Calabria, in un luogo destinato ad essere abbandonato, senza una prospettiva economica, dove due passanti si fanno le feste solo perché si incontrano, altrimenti è deserto.

Ma non è solo cuore, perché “restanza” può diventare anche un progetto economico, una prospettiva. Non solo, come dice il vocabolario “la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo”. Può diventare una visione imprenditoriale e culturale: ogni paese dovrebbe avere un ufficio con postazioni di smart working, un Museo. E ogni piccola azienda dovrebbe saper vendere online i suoi funghi, la sua legna e la sua creatività, anche per contenere il disastro di certe strade calabresi. Quindi non solo cuore e non solo nostalgia, ma educazione al futuro.

L’altra parola, anche quella celebrata da Treccani un paio di anni fa, è eco-ostello. Il gruppo cooperativo Goel si ritrovò in homepage non per il meritorio e coraggioso lavoro che fa sul territorio, per un salario giusto e contro ogni oppressione mafiosa, ma perché aveva coniato questo termine per una struttura nel cuore di Locri, in un palazzo confiscato nel 2005 e riaperto nel 2021, dove sono state applicate tutte le leggi di sostenibilità ambientale. Questa fu la mia impressione quando lo visitai: “15 camere triple con bagno e Android box, niente plastica, carta al minimo e tutta riciclata, pannelli fotovoltaici, solare termico, lavagne digitali, postazioni per diversamente abili, biancheria certificata secondo il protocollo internazionale Gots. E cioè: prodotta solo con fibre naturali, nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente”. Nel frattempo l’eco-ostello è diventato il punto di arrivo di molti licei del Nord in gita, che vi si appoggiano per andare a spasso fra le nobili rovine di Epizefiri, il teatro e l’area sacra di Afrodite.

Ma l’eco-ostello ha ospitato per tutto l’inverno i medici cubani che hanno rinforzato l’ospedale, fino a quando non è ritornato il tempo degli studenti. I sanitari arrivati dai Caraibi, reduci dal menu tutto italiano dell’Unical, hanno gentilmente chiesto una variazione. E allora sono arrivati: riso, fagioli, verza, peperoni crudi. Ed è nata una fratellanza intorno al maiale, sacro sia per i calabresi e per i cubani. Quindi eco-ostello parola che vuol dire accoglienza, lavoro, difesa dell’ambiente, scambio di culture ed esperienze, perfino enogastronomia. Esempio toccato con mano di quello che si può fare con i luoghi abbandonati e riabitati, con gli eco-mostri.

Parole di Calabria: calamite e luoghi di incontro e buona socialità, una restanza che è il contrario dell’assistenza: cuore e ragione, prima di tutto. Dove sia la politica in tutto questo lo scopriremo magari la prossima volta.

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