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Christopher oggi ha quarant’anni anni e le sue cicatrici portano indietro nel tempo, sulla strada degli altiforni dell’Emilia Romagna. Nigeriano, sapeva bene che ai neri spettava il cerchio più duro: colare la ghisa a milletrecento gradi, quando questa schizza ovunque segnando il corpo come fosse marchio a fuoco sul bestiame. Toccava a loro anche scendere nell’anello più basso della fonderia scavando carboni, un po’ come ai neri d’Africa lavare piatti nei sotterranei dei ristoranti di lusso di mezzo mondo. “Non potevi lamentarti, perché rischiavi di non rinnovare quello straccio di contratto, con cui riuscivo a comprare il pane e mandare un po’ di soldi a mia madre”.

Da quindici anni in Italia, moglie italiana, tre figli piccoli, Chris racconta di un quotidiano da osservato speciale in un paese dove è vero che la polizia non ti toglie il respiro con un ginocchio fino a soffocarti, che non ti spara alle spalle, che non ti pesta a sangue anche soltanto per un sospetto, ma dove capita che la tua bambina venga additata dai compagni delle elementari per la sua pelle e i suoi riccissimi capelli. “Nelle famiglie, è lì che qualcosa non funziona ”. Come quando molti anni fa con la sua prima ragazza, italiana di Ravenna, decisero di presentarsi a casa di lei e quella sera a Chris non andò meglio che al plurilaureato dottor Sidney Poitier in Indovina chi viene a cena, girato però nel 1967, quando i leader più carismatici delle Pantere Nere urlavano pubblicamente che l’America aveva dichiarato guerra ai neri. Anzi, andò molto peggio che nella commedia di Tennessee Williams: “La madre di lei mi vide sulla porta e scoppiò a piangere. Quando tornammo a casa nostra, chiamò per chiedere a sua figlia se fosse ancora viva”.

Questa era la storia, e si tratta di quasi quindici anni fa. Questa è la storia, oggi. Nel pieno delle proteste negli Usa per la morte di George Floyd, quello che gli italiani dicono (e non dicono) ai neri, non fa molta differenza con un mondo dove il razzismo è sistemico. Lì si materializza nelle violenze della polizia, nelle evidenti diseguaglianze scoperchiate anche dalla pandemia, qui serpeggia in un silenzio che puzza di ipocrisia. Tempo fa la moglie di Christopher rispose all’annuncio di un’azienda che cercava venditori di cialde del caffè; la titolare rispose poi che quel “no” non era dipeso dal curriculum, ma da “questioni di opportunità”. La verità è che i razzisti spuntano spesso tra coloro con i quali dividiamo il pane. “La cosa più triste è che occorre dimostrare ogni giorno di non essere quello che dice Salvini in tv – si rammarica Christopher – e questo significa sorridere sempre, essere sempre educato, magari non protestare se qualcuno ti passa davanti nella fila alla posta, e tu vuoi evitare casini”.

Anche Amelie, giornalista di origini calabresi che vive a Londra da moltissimi anni e che ha sposato un black, come lo chiama, di sangue britannico da generazioni, è abituata a evitare storie. In Inghilterra non ha mai avuto problemi, in Italia quando si trattò di presentarlo in famiglia le zie paterne ne fecero una malattia. Per le feste canoniche lei, Cliff e le due bambine furono ufficialmente banditi: “A noi non hai pensato – le dissero – sapevi che non ci avrebbe fatto piacere”. E quando d’estate le piccole incontravano i loro coetanei alle Terme di Guardia Piemontese, nel Cosentino, questi le guardavano come fossero “strani animaletti”, ricorda Amelie con una punta anche di tenerezza, “e per i genitori l’idea che potessero essere miei figlie naturali, figli di una bianca, calabrese, non era contemplabile”.

L’Italia del razzismo sottile, e l’Italia dove gli insulti come “negro di merda” si sprecano. Non tanto negli stadi di calcio della serie A, che quasi non fa notizia ormai, bensì sui campetti della categoria dei Pulcini. Il sito “Cronache di ordinario razzismo” (cronachediordinariorazzismo.org) tiene dal 2011 uno sbalorditivo ed eroico elenco di episodi, spessissimo legati al mondo dello sport minorile e della scuola. Le cronache sono impressionanti, e sono centinaia: aggressioni a bambini al grido di “sei nero, ora ti facciamo diventare bianco”, “ti sta bene che sei caduta, i negri devono stare a terra”, pestaggi, discriminazioni, tetti al numero degli iscritti stranieri nelle scuole, umiliazioni.

Secondo Emmanuel Edson, intellettuale del Camerun che vive a Milano da vent’anni, il problema è anche la percezione che gli africani d’Italia hanno di se stessi che ingigantisce quello stereotipo discriminatorio diffuso, a suo dire, anche a sinistra: “Il nero stesso ha inconsciamente interiorizzato quel senso di inferiorità, e anche quando rivendica la sua uguaglianza è difficile riuscire a difendersi e uscirne vittorioso, perché nel fondo c’è un passato che lo spinge giù”. Occorrerà attendere un’altra generazione per riscattarsi, ma a patto che ci si associ seriamente, lontano dalle logiche politiche italiane, spiega Edson, che sta ultimando un testo teatrale visionario, dove in un futuro non molto lontano vede sindaco di Milano una donna, e nera: “Molti gridano contro il razzismo, ma non conoscono la nostra letteratura, al contrario di ciò che accade in Francia, dove il 10 per cento dei professori nei licei sa parlare di colonialismo perché viene da quella storia, dunque forma le coscienze dei più giovani”.

E noi italiani? Noi italiani siamo (anche) quelli dell’ultima fotografia scattata da Eurispes nel Rapporto 2020: secondo la maggioranza non esiste un reale problema di razzismo e xenofobia, e addirittura il 15,6 per cento nega l’esistenza della Shoah. Nessuna meraviglia, visto che qui ancora c’è chi interpreta Faccetta nera come una canzoncina goliardica.

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