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Alcuni bambini del villaggio

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WATAMU (KENYA) – I lunghi alberi di cocco nei villaggi che si raggiungono uscendo dalla strada principale di Timboni, a Watamu, sulla costa orientale del Kenya, sono come scolpiti lungo il tronco da scalette modellate col machete a forma di elle che man mano diventano una spirale. Servono a salire su in fretta, e in piena sicurezza (ma i ragazzini qui sono acrobati), intagliare il frutto, lasciare che dalle ferite esca una sorta di lattice lasciato poi a colare in bottigliette di plastica dell’acqua. In un paio di giorni fermenta, o qualche ora in più, a seconda della gradazione che si cerca (sempre più alta), producendo un naturale e micidiale liquore “fatto in casa”. Si chiama “nasi”, significa vino di cocco in swahili, la lingua con cui si parla e si scrive anche nella confinante Somalia. È l’unico che possono permettersi gli abitanti delle capanne costruite soltanto un pochino meglio che ai tempi della pietra tra fango, acqua, terra rossa, legno, ma che resistono alle piogge più di quanto si possa immaginare e soprattutto in qualche modo riparano dal gran caldo.

Siamo a metà gennaio e sotto l’Equatore il sole batte come un disperato sui disperati, l’umidità divora l’anima, il puzzo della spazzatura bruciata non lontano riempie i polmoni insieme al fumo dei fuochi (fuochi, non fornelli) con i quali si prepara la “sima”, una sorta di polenta alla quale se va bene, se avanza qualche scellino, al massimo si aggiungeranno teste di pesce. Il nasi spacca il fegato, i reni, manda in tilt il cervello. Con madri e padri favoriscono anche i ragazzini. È un passatempo necessario alla sopravvivenza, paradossalmente. Se ti fai di nasi dimentichi forse di riempirti soltanto di sima e teste di pesce, o di non mangiare affatto, che è la cosa più frequente, di bere acqua piovana, di succhiare inchiostro dalle etichette tra i rifiuti. E di non avere modo di sognare i sogni che altri hanno nel mondo e tu non puoi, e sai che non potrai avere.

All’inferno, ovvero la parte eclissata agli occhi dei ricchi italiani e inglesi che in massa hanno “colonizzato” la zona alloggiando nei resort vista Oceano Indiano, giocando a golf, abbuffandosi di pesce, ma quello buono, e illudendosi di aver fatto innamorare la bella ragazzina indigena pagata per fare sesso, siamo venuti al seguito di una piccola organizzazione romana, la Jua Yetu, il “nostro sole”, nata per sostenere dall’Italia la “gemella” di Timboni che si chiama Tupende Pamoja, “amiamo insieme”. Nocciolo centrale delle due è un miracolo, una scuola. Anzi più di una scuola, perché vive in osmosi col villaggio e sembra come una grande casa del popolo: la Mama Rossana Academy School, una primaria, sorta su un pezzetto libero di terreno che dal 2016 fa da spartiacque tra le case di est e di ovest, voluta da Alessandra Baiocchi (Rossana è il nome di sua madre, alla quale ha intitolato questo gioiello educativo in mezzo alla foresta), una visionaria che lavora al ministero della Giustizia di via Arenula, a Roma (sono i visionari ad aver spesso cambiato la storia dell’umanità, nel bene e anche nel male), che ha rivoluzionato in pochi anni la vita di questa gente, tra la più povera del pianeta.

Con i bambini parla anche in romanesco, ma riesce a farsi capire. “Mama Ale” (una donna bianca è mama, se uomo papa, senza accento), 57 anni, è una tosta. Alla Anna Magnani, per intenderci, senza fronzoli, che però si apre al momento giusto. Con quelli del posto ha trattato lei, tutta sola. Anche da Roma, quando a distanza di 4.750 chilometri, tra il suo lavoro, le tre figlie, deve mantenere equilibri così precari: insegnanti da pagare, da sostenere, cibo da comperare, manutenzione della struttura costruita con pochi mezzi perciò non proprio un gioiello architettonico e ingegneristico, bambini da strappare ogni santo giorno alla polvere, alla violenza anche.

Come qualche settimana fa, prima della partenza da Fiumicino, quando un piccolo del villaggio, Ariel, 5 anni, era stato rapito e abusato da un balordo probabilmente ubriaco che poi lo aveva abbandonato per strada, sanguinante e solo. Denunciato dalla nonna del bambino (coraggiosa, spinta a farlo dalla stessa Baiocchi), quel ragazzo era stato messo dentro e poi liberato su cauzione pagata misteriosamente. “Non sono cose all’ordine del giorno – ci raccontava Mama Ale sorvolando il Sahara e prima di fare scalo ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia ora attraversata dalla guerra –, ma accadono. Ciò che più fa male è il senso di impotenza. Molti di questi bambini che frequentano la scuola sono andata a cercarli io capanna dopo capanna, campagna dopo campagna, sugli alberi anche. Ho dovuto spiegare, convincere, mediare. Non è stato facile, non è facile”.

Mama Rossana School fa da “cuscinetto” di forze dell’Onu in una terra martoriata. Soltanto che al posto dei caschi blu e dei fucili qui si sta allerta con le penne e i quaderni, le lavagne di compensato, le mappe del mondo lontano appese alle pareti (identiche a quelle delle capanne, tranne nell’intonaco grezzo per riparare i piccoli dalla polvere, a un metro dal pavimento) delle sue nove aule con i lunghi banchi in legno povero non stagionato e senza trattamenti che col caldo diventano storti, i libri di inglese e di matematica. Non è cambiare radicalmente il futuro di questi 200 bambini – ai quali viene fornito tutto, materiale, divisa, cibo, e gratuitamente, quando invece per le scuole statali l’accesso è riservato a pochi eletti e altrove pullulano scuole messe su dagli occidentali che spacciano per missione umanitaria un affare che frutta fior di quattrini – ma gli si dà, con quei libri e quei quaderni, una possibilità. Se poi qualcuno avrà la forza di andare avanti, sarà stato un doppio miracolo.

Winnie, per esempio, è una ragazzina di 13 anni sveglia e profonda. Parla bene l’inglese, a scuola è un faro pieno di luce. Sogna di fare l’insegnante, oppure l’infermiera. E il suo sogno, già il solo fatto di averne uno, è come un bagliore nel buio. La madre è sparita portandosi via la sorellina, lei ha dovuto arrangiarsi in un’altra capanna, dove la donna che l’ospitava la costringeva a fare di tutto sotto minaccia di non darle da mangiare. Alessandra le pagherà una stanza altrove, di tasca sua, non con i pochi, pochissimi fondi di Jua Yetu. Ma il prodigio di questa bambina sono il sorriso e le risposte piene di saggezza da anziano capo tribù. “Vorrei anche avere accanto un uomo che mi ami – ci confessa –, e dei figli, forse tre, ma soltanto Dio sa che cosa sarà buono per me”. Per qualche giorno è rimasta nell’alloggio che ospita l’organizzazione, non sapendo dove andare. “Ma non potrà stare a lungo qui – si rammarica, Ale –, e sono lacerata, perché so che dovrà fare rientro al villaggio, dal paradiso calerà di nuovo nel baratro. Senza soldi, molte di queste ragazze, anche giovanissime, sono preda di chi offre loro denaro che accettano pur di poter mangiare, nessuna può dirsi davvero al sicuro da questo destino. Nemmeno Winnie”.

Le parliamo, commossi, spesso senza fiato, a tavola. Con noi c’è Halima Shekale, 38 anni, costretta a fuggire in Kenya quando ne aveva soltanto undici a causa dalla furia dei combattimenti nel suo paese. Halima è l’interfaccia tra la missione italiana e il complesso mondo di Watamu. Forte e dolcissima insieme, è il ministro degli esteri dell’organizzazione, per le strade della cittadina e soprattutto a scuola nelle difficili relazioni tra Jua Yetu e le famiglie dei ragazzi. Maria Teresa Frasca, romana, 62 anni, invece è il tesoriere dell’organizzazione, anch’essa un’eroina perché nonostante non cammini agevolmente a causa di una serie di interventi e problemi alla schiena è volata qua in prima linea. Con lei il marito, Giovanni Amendola, 67 anni, calabrese di Longobardi, nel Cosentino, trapiantato a Roma da ragazzino. Non si fermano mai. Maria Teresa in mensa a riempire i piatti per gli scolari, seduta (“ho la schiena spaccata, ma non lo diciamo a nessuno, mi raccomando, altrimenti mi impongono di restare a casa…”), Giovanni, caparbio ex ispettore dell’edilizia romana e oggi improvvisato muratore e cuoco alla Mama Rossana. Sotto al sole per ore a sistemare muri, grate, reti protettive, divertendosi con noi a ricordare vecchi proverbi dei tempi dei suoi nonni. “Un si cangia ciuccio quannu s’attraversa a fiumara”, ripete ogni tanto, impartendo a tutti, come dice, anche ai maestri kenioti, “lezioni di calabrese arcaico”.

Ma lì, fuori dalla scuola, fuori dal “cuscinetto”, è davvero l’inferno. Ed è qui che nascono e vivono, e muoiono, questi cuori disperati e sanguinanti. A settembre del 2019 se ne andò una notte, morta di fame, letteralmente, la piccola Naomi. Aveva dodici anni, era nata con una deformazione ossea e una grave miopia. Alessandra ancora ha nella testa le parole di ringraziamento quando le portò da Roma gli occhiali: “Grazie Mama Ale, da oggi potrò finalmente vedere il tuo viso”. Per Naomi era stato organizzato con immensa fatica un trasferimento all’ospedale Bambino Gesù, ma non si fece in tempo. Mentre Alessandra ce lo racconta deve asciugare le lacrime perché incontriamo proprio Ariel. Tendiamo le braccia e inaspettatamente si fa avanti, nonostante la violenza subita. Ariel è il bambino degli alberi: appena termina di mangiare, quando mangia qualcosa, si addormenta ma soltanto attaccandosi a un tronco, prima abbracciandolo poi crollando. Con Ariel i piccoli del villaggio vagano scalzi tra la sabbia rossa piena di “funza”, terribile sorta di pulci che si insinuano sotto le unghie o trovano spazio nelle ferite dei piedi, facendosi sempre più strada fino a mangiare anche la carne. Gironzolano, queste piccole anime. Tutto il giorno, tra poveri giochi e spazzatura le cui proteine dividono con i polli rinsecchiti e beccanti qua e là ogni cosa.

Si gioca, si gioca sempre. Un piccolo pallone di pezza, un copertone, cianfrusaglie indistinguibili. Dennis è alto nemmeno un metro, ma è il campione del mondo di corsa di copertoni. Percorre chilometri, facendoli andare come fosse in Formula 1. Tutto solo poi sta Pablo, e si tiene strettissimi un piatto, un foulard, un elefantino di plastica. Li difende dall’assalto di qualche amichetto, se li tiene in mano andando la sera a coricarsi a terra nella sua capanna. Anche Pablo dal prossimo anno andrà a scuola. Imparerà a scrivere e a leggere in swahili e in inglese, a fare due conti. Forse in classe potrà tenere almeno il foulard sporco di fango. È la sua copertina di Linus, e pare che sia per lui davvero una salvezza.

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