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Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia durante l'incontro pacificatore

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“I professionisti dell’antimafia” è termine ancora molto attuale nella pubblicistica nazionale. Nasce da un indovinato e fortunato titolo, dato da Riccardo Chiaberge, ad un articolo in Terza pagina del Corriere della Sera, che Sciascia firma partendo da una recensione di un saggio di Rubbettino sulla mafia ai tempi del fascismo collegandola a coeve vicende siciliane che riguardavano Leoluca Orlando e Paolo Borsellino (che Sciascia non conosceva).

Quest’ultimo era stato promosso dal Csm Procuratore a Marsala per i suoi meriti di magistrato antimafia senza considerare il principio (conservatore) dell’anzianità. Ne nasce una polemica furibonda che giunge ai giorni nostri. Cosa era accaduto?

Sciascia, molto malato, aveva raccolto una soffiata in ambienti socialisti e radicali all’epoca impegnati nella campagna sulla Giustizia giusta. Sciascia garantista autentico e disinteressato si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati.

Infatti lo scrittore fa autocritica sul punto e in un’intervista al “Segno” corregge la rotta per poi incontrare Borsellino e chiedere scusa.

Sciascia aveva avuto come bersaglio la direttiva del Csm e la retorica dell’antimafia. Lo scrittore, che anche per Borsellino era stato un punto di riferimento, inconsapevolmente, con quell’articolo ha procurato un vestito nobile a politici collusi e giornalisti di parte che da anni si fanno scudo del celebre titolo.

Gianni Barbacetto sostiene che “A un congresso della Dc siciliana, accusata di connivenze con la mafia, il pubblico grida all’oratore: «Cita Sciascia, cita Sciascia!»”.

Bella la difesa di Ostellino, direttore del Corriere, che decise di pubblicare l’articolo “perché in modo intelligente e su un delicato argomento come la lotta alla mafia, metteva in risalto i pericoli del pensiero unico”.

Spieghiamo meglio i fatti di quell’epoca lontana per comprendere il presente.

Per meglio dispiegare in tutta l’isola la strategia nata con il pool guidato da Caponnetto, Borsellino chiede il trasferimento alla procura della Repubblica presso il tribunale di Marsala per ricoprire l’incarico di procuratore capo.

Il Csm con una decisione storica accoglie l’istanza riconoscendo i meriti professionali e l’esperienza acquisita negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell’anzianità. Borsellino il 19 dicembre 1986 prende servizio a Marsala.

Il successivo 10 gennaio, sulla terza pagina del Corriere della Sera, Leonardo Sciascia commenta con la solita verve letteraria l’uscita di un saggio di un ricercatore inglese sulla mafia ai tempi del fascismo mettendolo in relazione alle vicende siciliane del periodo. Pur senza citarlo Sciascia mette alla berlina Leoluca Orlando (“sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi- in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei- come antimafioso”).

Lo scrittore lancia una previsione: chi si opporrà a lui in consiglio comunale o nel partito sarà giudicato un mafioso. Se sul sindaco l’esempio è considerato ipotetico, sulla magistratura Sciascia si poggia su un dato che considera “attuale ed effettuale”.

La parte finale del lungo articolo si conclude con la pubblicazione di uno stralcio del Notiziario straordinario del Csm che in burocratese stretto comunica l’esito dell’assegnazione del posto di procuratore capo a Paolo Borsellino alla luce “della particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare”.

L’illuminista Sciascia fa a pezzi la prosa ministeriale giudiziaria dell’intero passo e non si accorge di essere finito tra i conservatori difendendo il concetto di anzianità per la nomina.

Scrive Sciascia: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un indovinato e fortunato titolo “I professionisti dell’Antimafia” dato allo scritto da Riccardo Chiaberge apre una polemica furibonda e strutturale che giunge ai giorni nostri e assegna una notorietà negativa ad un serio magistrato come Paolo Borsellino che certamente non meritava una gogna mediatica di questo tipo.

Per giunta firmata dall’intellettuale che con i suoi romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura psicologica della mafia. Un opinion leader che spesso al Paese aveva dato quella morale che la politica non aveva saputo dare. Borsellino si sentì molto ferito da quell’articolo che aprì una serrata discussione. Anche per il magistrato il maestro di Racalmuto era stato un padre intellettuale.

Sciascia, garantista autentico e disinteressato, evidentemente si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Lo comprenderà lo scrittore e in un’intervista alla rivista “Segno” correggerà la rotta nei confronti del magistrato. I due s’incontreranno per un chiarimento. Sciascia dirà personalmente a Borsellino, nel corso di un colloquio molto cordiale, che era stato ingiusto personalizzare sulla sua nomina e chiede scusa dell’accaduto.

Borsellino in quei giorni dirà alla sorella Rita: “Non posso prendermela con Sciascia, è troppo grande. Sono cresciuto con i suoi libri. È stato malconsigliato e manovrato”. Ayala ancora oggi sostiene che quell’articolo era giusto nei contenuti ma l’esempio su Borsellino profondamente sbagliato. Una tesi su cui concorda il giornalista e scrittore Alexander Stille: ”Non era giusto mettere sullo stesso piano due figure diverse come Orlando e Borsellino”.

Un conto era la retorica della politica, un altro l’impegno giudiziario nella trincea infuocata della procura di Palermo. Tra l’altro Borsellino abbandonava la sua città per andare a lavorare in un difficile posto di provincia. Aumentava le sue spese personali visto che era costretto a prendere in fitto un piccolo appartamento vicino il commissariato di Marsala recandosi a Palermo dalla famiglia solo nel fine settimana. Quindi il successo alla fine comportava per lui anche sacrifici economici e personali.

Il vero successo è determinato dalla polemica che si apre sui giornali anche con grandi confusioni. Borsellino assunse un tono nobile ma fermo nei toni. In un’intervista rilasciata a Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il neoprocuratore di Marsala che conquista in maniera non voluta la scena nazionale, afferma: “Nutro preoccupazione per i segni di cedimento che avvertiamo in Sicilia. E’ pernicioso che si allenti, adesso, la tensione, in qualsiasi modo e da qualsiasi parte. Non si è ancora capito che questo è un momento delicatissimo della lotta alla mafia”.

In molti infatti cominciavano a cambiare atteggiamento. Anche a Palermo il cardinale Pappalardo, il prelato delle omelie segnanti ai grandi funerali di Stato, aveva messo in guardia sulla spettacolarizzazione del maxiprocesso e aveva fatto riflessione sul fatto che l’aborto ammazza più innocenti della mafia.

Nella stessa intervista Borsellino approfittava per informare gli italiani del suo curriculum di magistrato: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. In quei giorni la polemica dimentica infatti che Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto erano stati magistrati che avevano dato la loro vita nella lotta senza mediazioni contro la mafia. Il direttore del Corriere della Sera, il liberale Piero Ostellino, scrisse e sostenne:
“L’antimafia rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario”.

Poco prima di morire la moglie del giudice ucciso, Agnese, sempre poco prodiga di parole e sempre misurate ad Attilio Bolzoni ha dichiarato: “Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima di altri”. La figlia di Sciascia, Anna Maria, riflette nello stesso articolo di Bolzoni: “Il suo era solo un richiamo alle regole, ce l’aveva con quella direttiva del Csm e con una certa retorica dell’antimafia […] Fu isolato solo perché aveva lanciato una riflessione sull’arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull’intoccabilità dell’antimafia.”

Borsellino andrà con la memoria a quella lontana polemica durante i 57 giorni che separano il botto di Capaci da quello di via D’Amelio. Ventitre giorni prima di morire in un dibattito pubblico, Borsellino ragiona sul fatto che Falcone aveva cominciato a morire quando “Sciascia sul Corriere bollò me e l’amico Leoluca Orlando come professionisti dell’antimafia”.

Nello stesso intervento Borsellino rifletteva che poi a Falcone gli fu negata la guida dell’ufficio istruzione. Di questo ridimensionamento tornava a dare la responsabilità alla stessa magistratura. Anche quella volta Borsellino era sceso in campo con la sua determinata volontà e netta coscienza morale. I professionisti dell’antimafia sono invece ancora tra noi.

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