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Originaria di Vibo, l’attivista hvale partì per Srebrenica per aiutare le popolazioni dilaniate dai nazionalismi

Sono gli anni Novanta, i master sulla cooperazione internazionale non esistono e tutto ciò che è necessario fare per aiutare gli altri si impara facendolo. È in questi anni che una giovane attivista vibonese, che non riesce a rimanere indifferente davanti alle immagini in Tv sulla devastazione causata dalla furia cieca dei nazionalismi nell’ex Jugoslavia, decide di rimboccarsi le maniche. Di fare davvero qualcosa.

«Ricordo che a Vibo, in una scuola, venne allestita una mostra fotografica al fine di raccogliere fondi per le popolazioni colpite. Si trattava degli scatti di Mario Boccia (il fotoreporter che più di tutti ha saputo raccontare la guerra in Bosnia ed Erzegovina, ndr) che illustravano gli orrori in atto nei Balcani. Io cercavo di capire, di comprendere, non potevo non fare qualcosa. Così, grazie al Cric e cioè al Centro regionale di intervento per la cooperazione di Reggio Calabria, accettai di partire in Croazia per coordinare un progetto a tutela dei profughi, degli sfollati, di quanti avevano perso tutto», spiega l’attivista e femminista calabrese che oggi in pubblico si presenta col nome di hvale, scritto tutto in minuscolo, e non con quello di battesimo per una semplice ragione. «Siamo persone piccole – spiega la scrittrice – e questo dobbiamo ricordarlo ogni giorno».

Quella di hvale è, dunque, una storia capovolta: trent’anni fa sono gli “altri” ad arrivare, pieni di disperazione e forse di speranza, in Italia, in Europa. Al contrario l’attivista compie un viaggio nei luoghi dove nessuno vuole andare, da cui tutti si tengono alla larga, per rimanervi per sempre. «Vivo a Sarajevo – dice hvale -, qui in Calabria non sono più tornata. O meglio l’ho fatto di recente, per un breve periodo, per la morte di mio padre, e ancora una volta ho trovato una terra che è davvero simile a quella in cui io adesso vivo. Un territorio che resiste, un territorio che è costretto ad andare in giro con gli asterischi e le parentesi per spiegare che c’è molto altro oltre il malaffare». Se la regione, quella calabrese, non è, pertanto, esclusivamente cronaca nera, Srebrenica non è solo la città della guerra. «Dal Sud al Sud – prosegue l’attivista -, era il nostro motto negli anni Novanta, allora un qualcosa di impensabile avere a che fare con le periferie del mondo che, ripeto, erano e sono quelle che più di tutte sanno resistere».

E in questi giorni il pensiero va proprio a Srebrenica, la città d’argento dove sono attualmente in atto diversi progetti per “ricostruire” quanto distrutto (basti pensare a quello di Irvin Mujcic volto ad accogliere visitatori da ogni dove). Nel mese di luglio di ventotto anni fa (era il 95’) tutto il mondo assiste, infatti, alla più grave strage in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale: oltre 8mila bosniaci musulmani vengono uccisi dalle milizie serbo-bosniache; per la maggioranza si tratta di uomini e ragazzi, molti dei quali ancora in corso di identificazione.

«Certi incontri – afferma hvale – mi hanno cambiato la vita. Durante il mio attivismo ho distribuito beni di prima necessità, abbiamo messo su, insieme ad associazioni locali, servizi psico-sociali verso donne con storie pesantissime, fuggite dalla loro terra e rimaste completamente sole ma nonostante tutto con la voglia di andare avanti. Ricordo anche un programma di assistenza ginecologica e tutte le altre iniziative a sostegno di chi era ancora in vita. Da allora – ribadisce –, sono rimasta. Mi sono stabilita, come dicevo, a Sarajevo, dove se sei un turista è tutto bellissimo, ma la situazione geopolitica è difficile, ed è difficile dimenticare».

Quando l’attivista vibonese decide, così, di stabilirsi definitivamente nei Balcani fonda un portale multilingue per raccontare la società civile. «Nel 2005 poi – continua hvale – ho messo su un’organizzazione che si occupava (l’esperienza si è conclusa nel 2020) di comunicazione e Internet. Posso dire – chiosa – che ciò che ho fatto sia sempre stato attivismo di strada, insieme alle associazioni locali. Abbiamo protestato e manifestato per chiedere diritti e, tra le altre cose, io ho sempre detto che i Balcani, la Bosnia, mi hanno dato un corpo. Prima di trasferirmi, del resto – prosegue l’attivista –, mi ero sempre esposta sì, avevo scritto dei libri, ma appunto mi ero esposta da intellettuale».

«Quando poi vai là dove succedono le cose e ti imbatti in donne (profughe originarie di Srebrenica della tua stessa età, ragazze che a ventotto anni hanno già i capelli bianchi ma combattono col sorriso per guadagnarsi un futuro e sono, nonostante tutto, felici perché sentono la vita), allora non puoi stare fermo: qualcosa la devi fare. Io – conclude – sono molto contenta che queste donne abbiano deciso di darmi fiducia, da loro ho imparato moltissimo, ho imparato a vivere, il rispetto profondo che deve essere dato, non a caso, alla vita». Ecco perché, ancora una volta, quella di hvale è una storia al contrario. Una storia in cui si impara qualcosa di necessario quando meno ce lo si aspetta. «Io prima di stabilirmi nei Balcani – prosegue l’attivista – non avevo consapevolezza di quanto fossi fortunata ad avere con me il passaporto giusto, quello italiano, che ancora oggi ti permette di oltrepassare i confini ed essere guardato con rispetto. Grazie agli incontri fatti – dichiara hvale – ho imparato a vedere i verbi che non vedevo, è stato un arricchimento».

Uno dei verbi che, in conclusione, ci piace vedere è raccontare. Raccontare esperienze di gente apparentemente minuta che, come hvale, si è messa e continua a mettersi in gioco in quella che è la piccola grande azione di rivendicazione di diritti e prerogative. Un’azione realizzata non da lontano, ma in mezzo ai diretti interessati. Perché da soli si può andare in giro, ma insieme si va sempre da qualche parte.

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