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Vito Teti

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NELL’intervista di qualche settimana fa (LEGGI), Maria Francesca Fortunato ha discusso con Vito Teti del suo ultimo saggio dedicato a quella che lui definisce «una categoria antropologica» che nei suoi studi da tempo ha un ruolo di primo piano. Il libro è composto da tredici brevi e densi capitoli che contengono le preziose riflessioni di un antropologo che ha composto quelle pagine andando alla ricerca del senso del vivere in questi tempi complicati e privi di certezze partendo da un «sentimento… correlativo di ogni partenza, di ogni fuga, di ogni erranza, ossia quello della “restanza”.»

È questo il sentimento «di chi àncora il suo corpo ad un luogo e fa diaspora con la mente» e che Teti indaga nel suo volume “La restanza” pubblicato da Einaudi. Un libro che è più che un agile saggio di antropologia, diventando in diversi punti un manifesto per riunire il passato al presente e trovare raccordi di senso che spieghino, e se possibile risolvano, le lacerazioni che molti vivono mentre tentano di trovare una strada che parta dalla memoria e aiuti a portare nel futuro tanti luoghi di margine del nostro Paese.

Questi sono temi che Teti ha affrontato nella sua attività all’Università della Calabria e in diversi suoi libri precedenti, compreso il volume “Homeland” pubblicato nei mesi scorsi da Rubbettino che racconta, anche con l’uso di molte fotografie sue e di Salvatore Piermarini, il suo paese e il suo “doppio” canadese della Little Italy di Toronto. Un punto di partenza per molte analisi condotte dall’autore è che «l’uomo è in viaggio, comunque, anche quando pensa di essere fermo» e quindi si può raccontare anche il viaggio di chi resta. Specialmente se resta in luoghi in cui ogni giorno avvengono trasformazioni e cambiamenti che costringono a reinventarsi il rapporto con chi rimane e con chi va via, il rapporto con i luoghi che si svuotano e che in questo cambiare modificano il senso del tempo e dello spazio percepito da chi li vive.

In questo libro Teti, anche usando alcuni tratti personali, mostra quanto sia importare riflettere e comprendere il senso del restare nei propri luoghi, nel proprio mondo e non confondere questo restare con un atteggiamento di passività, di immobilismo. Nel testo la pratica della partenza, che nel nostro tempo viene spesso presentata come elemento connaturato con la modernità, è discusso anche in relazione al “ritorno”. Restare e ritornare sono due elementi fondamentali nelle vite delle persone e come scrive Teti «Il viaggio di Ulisse non avrebbe senso senza l’attesa di Penelope.» Coloro che restano e quelli che partono non si slegano mai completamente, non si lasciano mai. Dare un giudizio di valore sulle scelte che la vita ci costringe a compiere non è mai la maniera migliore per comprendere quello che accade e le motivazioni dell’accadere. L’invito è a sforzarsi di analizzare senza preconcetti ragioni e scelte che spingono a partire o a fermarsi nei luoghi, senza farsi condizionare da scelte di parte.  

Questo volume non è soltanto un saggio specialistico sull’antropologia del restare, è anche un libro che vuole stimolare a ragionare sulle forme migliori del vivere nei luoghi che la civiltà industriale e il sistema del capitalismo globalizzato hanno messo ai margini. Luoghi che sembrano economicamente poco utili ma che conservano la memoria della civiltà dell’uomo e sono ricchi di risorse e di natura che tutti invocano a parole e pochi praticano realmente. Il libro mette anche di fronte alla necessità di ridefinire il rapporto tra i grandi centri urbani e le periferie del mondo, tra le grandi città dell’Italia e i tanti paesi del Sud e anche con i luoghi montani del Centro e del Nord. L’invito è a liberarsi da nostalgie di vecchie cose e da retoriche di un passato idilliaco e ripensare a come il valore dei luoghi possa aiutarci a vivere meglio e con maggiore consapevolezza della nostra natura di umani e di essere sociali che devono saper costruire relazioni positive con il mondo in cui sono immersi.

Teti scrive «Siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato». Tutti i luoghi che conservano le nostre radici generano sentimenti di “restanza”, ma questi sentimenti non devono soltanto riportarci dentro le memorie del passato, ma devono soprattutto aiutarci a progettare il nostro futuro anche in luoghi che oggi non sono “alla moda”. Il libro infatti ci invita a cercare modi nuovi e intelligenti per coltivare radici che, oltre a legare, siano capaci di alimentare e far crescere i frutti del restare. In altre parole, la “restanza” deve essere un sentimento trasformativo che deve servirci a pensare a futuri possibili in luoghi che oggi scontano difficoltà, scarsità di servizi e abbandoni, ma che domani potrebbero offrire risorse rare e soluzioni preziose. Questo testo ci interroga sullo sguardo che rivolgiamo ai nostri luoghi quando li guardiamo da lontano e, soprattutto, quando li osserviamo da dentro, essendo abitanti di una restanza che chiede visioni attive, che spinge a riflessioni che ci aiutino a capire andando oltre il difficile contingente, che ci invitino a mettere in campo azioni di cura dei territori, delle persone che li abitano. Azioni che si oppongono alle deleterie politiche di abbandono che spesso sono le responsabili delle difficoltà di chi resta per necessità o per scelta di vita.

Un libro da solo non cambia le cose, ma se diventa uno strumento per comprendere la realtà e una sorgente di ipotesi per azioni utili per una comunità, può andare oltre la registrazione di opinioni e di conoscenze e si trasforma in uno strumento operativo, una guida per agire. Sulla spinta di questo saggio, ad esempio, potrà essere molto utile considerare come cambia la pratica della restanza nel mondo fortemente interconnesso e quasi unificato dalla Rete. Come spiega Teti, la restanza deve fare sempre i conti con il tempo e con lo spazio e dunque possiamo affermare che oggi li dovrà fare anche con l’azzeramento delle distanze che stanno realizzando le comunicazioni digitali e con il tempo accelerato degli algoritmi. In altre parole, il “qui” e “l’altrove” vengono profondamente trasformati dal digitale e non necessariamente in senso negativo per i luoghi lontani dal centro e per i piccoli paesi. Il digitale rende prossima la lontananza e così le persone distanti si possono avvicinare e interagire più facilmente anche se con forme diverse da quelle tradizionali.

Le infrastrutture digitali possono aiutare la pratica della restanza. Non risolvono tutti i problemi per i piccoli centri, ma possono contribuire a costruire una parte del loro futuro e per queste ragioni, l’aiuto che il digitale può fornire alle pratiche di restanza merita attenzione e azioni pratiche di sperimentazione. Il pensiero mainstream assegna ai piccoli paesi, alla provincia, ai luoghi di campagna, un ruolo geografico ed esistenziale marginale. Si può andare lì in vacanza, per il week end o per una breve visita, non per viverci e per lavorare. Da questo modello discenderebbe che la restanza potrebbe avere soltanto un valore nostalgico, quasi reazionario, non progressivo. Invece questo saggio ci dice che la restanza, anche quando è una forma di resistenza culturale e sociale, è una resistenza che non guarda al passato, semmai intende usarlo come elemento esperienziale utile alla costruzione del futuro. Il restare proposto da Teti è dinamico, è attivo, rifiuta la fuga come unica soluzione, offre le premesse per realistiche costruzioni di futuri possibili anche nei luoghi ai quali le strategie dei sistemi di potere che governano il mondo sembrano voler rubare il futuro.

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