X
<
>

Condividi:
11 minuti per la lettura

 

COSENZA – Ironico e sentimentale. Istrionico e passionale. E’ stato definito il miglior cantautore italiano della sua generazione. L’artista errante Vinicio Capossela porterà i suoi racconti, per meglio dire la sua poesia, a Cosenza. Lunedì 17 dicembre alle 21, infatti, il Teatro Rendano ospiterà il “Rebetiko Gymnastas Tour 2012”. Tutto esaurito già da giorni, per uno degli appuntamenti di punta della stagione 2012/2013 del Rendano. Capossela da sempre racconta di guitti, vicoli chiassosi e notti insonni. Tra una tappa e l’altra del suo impegnativo tour si è ritagliato un po’ di tempo per una chiacchierata. 
Mai banale, né scontato. Si è fatto ambasciatore del rebetiko, musica greca e ribelle. Ma non tutti (forse) conoscono questo genere: di cosa si tratta?
«E’ una musica paragonabile al blues afroamericano, nello spirito, però con un elemento più anarchico. E’ una musica che esprime un modo di prendere la vita, un mondo che antepone l’uomo alle convenzioni sociali. Una musica che esprime fierezza, che non ha paura della verità e del dolore, ma lo attraversa. Che ci ricorda che siamo uomini, e non consumatori e che non abbiamo paura di consumare la vita».
Quali i motivi che l’hanno spinta a “toccare con mano” il rebetiko?
«E’ una vecchia passione, però in questo periodo difficile, di smarrimento, di sovranità delle banche praticar la con mano ci ricorda che l’Europa è un Unione di popoli, non di banche, che siamo tutti nella stessa barca e dobbiamo remare. E’ un modo di tornare alle origini, alle cose semplici, ai  sentimenti detti con i loro nomi».
Il suo ultimo disco, “Rebetiko gymnastas”, è una raccolta dei suoi grandi successi, reinterpretati in chiave rebetika: otto brani del suo repertorio e quattro inediti. Da dove nasce questa esigenza e, soprattutto, perché proprio la Grecia e le sue tradizioni?
«Ho registrato questo disco insieme a straordinari interpreti della musica rebetica e non solo, Manolis Pappos e altri. Lo avevo fatto per fare un omaggio alle musiche di porto e di risacca, che uniscono il mediterraneo e le esistenze di chi sta su un bordo. Il concerto si arricchisce di altri brani, alcuni di maggiore impegno sociale, come la bellissima “Lavorare con lentezza” di Enzo del Re, e brani di Markos Vanvakaris, il padre del rebetiko. E’ un concerto molto emotivo, che va al di là del repertorio del disco, ma è soprattutto un concerto di canzoni, alcune che non suonavamo da diverso tempo…».
Ha dichiarato che il pubblico deve avere mani e piedi liberi quando ascolta la musica popolare rebetika, per aver la possibilità di muoversi… come si farà al Teatro Rendano di Cosenza? Ha intenzione di far togliere le poltrone rosse?
«Sarebbe bello infatti. Al teatro Bellini di Napoli lo abbiamo fatto. E’ molto bello restituire ai teatri la loro natura popolare. Per il resto abbiamo suonato la rebetika ginnastica in giro per l’Italia, in rock club, centri sociali, luoghi che esprimano una cultura del territorio e dove, soprattutto, si potesse stare con le mani e i piedi liberi, per abbandonarsi al demone».
Nelle sue canzoni parla di cultura mediterranea. Cosa può rappresentare per la musica?
«Per me il mediterraneo è innanzitutto il luogo del mito, del mistero ancestrale. E poi è un mare, dunque i porti, le musiche dell’assenza. E’ un mare che riecheggia di musica e di vino. Penso alla Magna Graecia, al racconto meraviglioso di Omero, ma anche all’orrore, alla paura ancestrale. E poi i respingimenti, il mare chiuso: la musica può tenere aperto questo mare». 
Spesso ha detto di sentirsi un immigrato e di appartenere a più luoghi… questo ha dato un contributo alla sua musica e alla sua carriera?
«Non mi sento un immigrato. Sono figlio di emigrati e ho portato un pezzo della loro terra ben attaccato alle scarpe, però è una terra in cui non sono cresciuto, dunque mi sono abituato a portarla in me come una specie di Itaca. La non appartenenza alle cose da sì un senso di smarrimento, ma sviluppa anche la capacità di descrivere i luoghi, di farsi imprimere dalle impressioni, senza varcare quella soglia».
E’ stato definito “artista anfibio”, diviso tra la necessità di cantare il mare e quella di approdare a terra per trasformarsi in condottiero e portavoce di reietti e clandestini, contadini e cittadini, solitari e innamorati. Tornato a terra approda a Cosenza. E’ già stato ospite della città e della nostra regione…
«Ho un ricordo di Cosenza come di una città molto viva, l’università, il centro storico, il bellissimo Teatro Rendano, la rendono diversa dalle altre città della Calabria che ho visitato. La Calabria in genere rimane per me un continente pieno di mistero e in gran parte inesplorato. Terre dove il lupo può ancora ululare, nascosto alla vista. Mi ricorda un po’ Creta un po’ l’Albania, terre di profonda, ancestrale tradizione».
Tornando alla musica, con chi le piacerebbe collaborare in futuro?
«Nella musica il dialogo è vitale. Ci sono artisti che, al di là di quello che lasciano inciso sul disco, influenzano la vita e la musica, una volta incontrati. Per esempio Psarantonis, questo straordinario aedo suonatore di lira cretese. Abbiamo ora registrato insieme una versione di “Itaca” di Lucio Dalla per un disco a lui dedicato. Per Natale suonerò con i Micrologus, una formazione umbra di musica medievale, per dare voce alle tradizioni più ancestrali dei riti invernali, quelle delle feste dei folli, dei riti carnevaleschi di liberazione. E poi ho registrato il disco delle musiche da matrimonio della cosiddetta “banda della posta” di Calitri. Una tradizione bellissima a rischio di estinzione. Altre cose verranno, magari delle zampogne del Pollino, dei canti di briganti. Magari musicare il “Te deum dei calabresi” raccolto nei testi del meridionalista Giustino Fortunato. L’importante è portare un poco di ricchezza, di fierezza, di dignità, di umorismo, cose che combattono la nocività».

COSENZA – Ironico e sentimentale. Istrionico e passionale. E’ stato definito il miglior cantautore italiano della sua generazione. L’artista errante Vinicio Capossela porterà i suoi racconti, per meglio dire la sua poesia, a Cosenza. Lunedì 17 dicembre alle 21, infatti, il Teatro Rendano ospiterà il “Rebetiko Gymnastas Tour 2012”. Tutto esaurito già da giorni, per uno degli appuntamenti di punta della stagione 2012/2013 del Rendano. Capossela da sempre racconta di guitti, vicoli chiassosi e notti insonni. Tra una tappa e l’altra del suo impegnativo tour si è ritagliato un po’ di tempo per una chiacchierata. Mai banale, né scontato. Si è fatto ambasciatore del rebetiko, musica greca e ribelle. Ma non tutti (forse) conoscono questo genere: di cosa si tratta?«E’ una musica paragonabile al blues afroamericano, nello spirito, però con un elemento più anarchico. E’ una musica che esprime un modo di prendere la vita, un mondo che antepone l’uomo alle convenzioni sociali. Una musica che esprime fierezza, che non ha paura della verità e del dolore, ma lo attraversa. Che ci ricorda che siamo uomini, e non consumatori e che non abbiamo paura di consumare la vita».

 

Quali i motivi che l’hanno spinta a “toccare con mano” il rebetiko?

«E’ una vecchia passione, però in questo periodo difficile, di smarrimento, di sovranità delle banche praticar la con mano ci ricorda che l’Europa è Unione di popoli, non di banche, che siamo tutti nella stessa barca e dobbiamo remare. E’ un modo di tornare alle origini, alle cose semplici, ai  sentimenti detti con i loro nomi».

Il suo ultimo disco, “Rebetiko gymnastas”, è una raccolta dei suoi grandi successi, reinterpretati in chiave rebetika: otto brani del suo repertorio e quattro inediti. Da dove nasce questa esigenza e, soprattutto, perché proprio la Grecia e le sue tradizioni?

«Ho registrato questo disco insieme a straordinari interpreti della musica rebetica e non solo, Manolis Pappos e altri. Lo avevo fatto per fare un omaggio alle musiche di porto e di risacca, che uniscono il mediterraneo e le esistenze di chi sta su un bordo. Il concerto si arricchisce di altri brani, alcuni di maggiore impegno sociale, come la bellissima “Lavorare con lentezza” di Enzo del Re, e brani di Markos Vanvakaris, il padre del rebetiko. E’ un concerto molto emotivo, che va al di là del repertorio del disco, ma è soprattutto un concerto di canzoni, alcune che non suonavamo da diverso tempo…».

Ha dichiarato che il pubblico deve avere mani e piedi liberi quando ascolta la musica popolare rebetika, per aver la possibilità di muoversi… come si farà al Teatro Rendano di Cosenza? Ha intenzione di far togliere le poltrone rosse?

«Sarebbe bello infatti. Al teatro Bellini di Napoli lo abbiamo fatto. E’ molto bello restituire ai teatri la loro natura popolare. Per il resto abbiamo suonato la rebetika ginnastica in giro per l’Italia, in rock club, centri sociali, luoghi che esprimano una cultura del territorio e dove, soprattutto, si potesse stare con le mani e i piedi liberi, per abbandonarsi al demone».

Nelle sue canzoni parla di cultura mediterranea. Cosa può rappresentare per la musica?

«Per me il Mediterraneo è innanzitutto il luogo del mito, del mistero ancestrale. E poi è un mare, dunque i porti, le musiche dell’assenza. E’ un mare che riecheggia di musica e di vino. Penso alla Magna Graecia, al racconto meraviglioso di Omero, ma anche all’orrore, alla paura ancestrale. E poi i respingimenti, il mare chiuso: la musica può tenere aperto questo mare». 

Spesso ha detto di sentirsi un immigrato e di appartenere a più luoghi, questo ha dato un contributo alla sua musica e alla sua carriera?

«Non mi sento un immigrato. Sono figlio di emigrati e ho portato un pezzo della loro terra ben attaccato alle scarpe, però è una terra in cui non sono cresciuto, dunque mi sono abituato a portarla in me come una specie di Itaca. La non appartenenza alle cose da sì un senso di smarrimento, ma sviluppa anche la capacità di descrivere i luoghi, di farsi imprimere dalle impressioni, senza varcare quella soglia».

E’ stato definito “artista anfibio”, diviso tra la necessità di cantare il mare e quella di approdare a terra per trasformarsi in condottiero e portavoce di reietti e clandestini, contadini e cittadini, solitari e innamorati. Tornato a terra approda a Cosenza. E’ già stato ospite della città e della nostra regione…

«Ho un ricordo di Cosenza come di una città molto viva, l’università, il centro storico, il bellissimo Teatro Rendano, la rendono diversa dalle altre città della Calabria che ho visitato. La Calabria in genere rimane per me un continente pieno di mistero e in gran parte inesplorato. Terre dove il lupo può ancora ululare, nascosto alla vista. Mi ricorda un po’ Creta un po’ l’Albania, terre di profonda, ancestrale tradizione».

Tornando alla musica, con chi le piacerebbe collaborare in futuro?

«Nella musica il dialogo è vitale. Ci sono artisti che, al di là di quello che lasciano inciso sul disco, influenzano la vita e la musica, una volta incontrati. Per esempio Psarantonis, questo straordinario aedo suonatore di lira cretese. Abbiamo ora registrato insieme una versione di “Itaca” di Lucio Dalla per un disco a lui dedicato. Per Natale suonerò con i Micrologus, una formazione umbra di musica medievale, per dare voce alle tradizioni più ancestrali dei riti invernali, quelle delle feste dei folli, dei riti carnevaleschi di liberazione. E poi ho registrato il disco delle musiche da matrimonio della cosiddetta “banda della posta” di Calitri. Una tradizione bellissima a rischio di estinzione. Altre cose verranno, magari delle zampogne del Pollino, dei canti di briganti. Magari musicare il “Te deum dei calabresi” raccolto nei testi del meridionalista Giustino Fortunato. L’importante è portare un poco di ricchezza, di fierezza, di dignità, di umorismo, cose che combattono la nocività».

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE