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COSENZA – Dal “Monte” del suo ultimo album al monte Curcio, tra i boschi incontaminati della Sila cosentina. Un concerto dalla forte carica simbolica per Alessandro Mannarino quello previsto domenica prossima a chiusura della rassegna “La Sila suona bee”. In quei luoghi in cui riecheggia ancora il demone meridiano di Vinicio Capossela, protagonista lo scorso anno, domenica pomeriggio all’orario insolito delle 15, sarà il cantautore romano a portare il suo messaggio di amore e ribellione.

Chi meglio di lui, in fondo, per chiudere la seconda edizione della rassegna “montana” di Giampaolo Calabrese, iniziata con Paola Turci a Monte Cocuzzo e proseguita con Manu Chao nei pascoli di Malarotta? «Ho suonato già una volta in Sila, ma non in un contesto completamente immerso nella natura. E poi mai a quell’ora di pomeriggio. Sarà un’esperienza nuova per me e sicuramente unica» ci racconta al telefono l’artista capitolino, che sui monti di Camigliatello, così come per tutte le tappe del tour “Corde 2015”, arriverà accompagnato da Tony Canto e Alessandro Chimienti (chitarre), Nicolò Pagani (contrabbasso), Francesco Arcuri (violoncello e sega sonora), Daniele Leucci (percussioni) e Lavinia Mancusi (tamburo battente e voce). Un concerto dalla molteplice carica simbolica, dicevamo. Non solo perché sarà una sorta di sugello di una tournée di grande successo; non solo perché sembrerà una ricongiunzione ideale con l’ultimo suo album (“Al Monte”); ma soprattutto perché in quegli spazi della Sila dove la terra sembra unirsi al cielo, il cantante potrà ritrovare le sue origini che, a dispetto del luogo di nascita e di quell’inconfondibile accento, non sono romane.

«I miei nonni paterni erano calabresi – ci racconta Mannarino – e nei primi 13 anni della mia vita ho vissuto tutte le mie estati in Calabria. Oltre all’ospitalità della gente, che mi è stata tramandata come un valore sacro, mi porto dentro i racconti dei miei nonni. Racconti magici, che si sviluppavano tra la terra, il mare, gli uliveti e la luna, in un mix di magia, paganesimo e cristianesimo che lasciava intravedere un orizzonte mitico».

Che esperienza è quella del tour “Corde”?

«Le corde sono quelle degli strumenti utilizzati. Le mie canzoni vengono suonate in un ensemble acustico che permette nuove e diverse dinamiche di volume e di interpretazione, diverse sonorità. Le corde permettono più libertà nell’esecuzione e danno più spazio all’ improvvisazione, alla libera espressione del musicista…».

Nelle sue canzoni troviamo storie di arrabbiati, di carcerati e di disillusi. Eppure, di fondo, c’è sempre l’amore. “L’uomo si fa bestia quando non riceve amore” è il messaggio piuttosto esplicito…

«Sì, l’essere umano è nato per ricevere e dare amore e chi non ne riceve non è in grado di viverlo e quindi di darlo e, anzi, si ammala pure. È un’esperienza fortissima, che ti sconvolge, ed è poi la più forte forma di conoscenza che l’uomo ha a disposizione…».

In che senso?

«Non è una forma di conoscenza razionale o scientifica, ma dell’inconscio. È una forma di libertà assoluta. Per questo viene osteggiato dal potere e dalle religioni, si cerca di controllarlo o di regolarlo con dei precetti come il matrimonio».

Mannarino contro il matrimonio dunque…

«No, no io mi faccio la vita mia senza essere contro (ride, ndr). Dico solo che l’amore è una forma di libertà: arriva, se ne va, cambia. Come si fa a stabilire come deve essere, che deve essere per sempre o quello che è giusto o sbagliato? La religione sembra voler far questo, si parla di matrimoni e di annullamenti come se il rapporto tra un uomo e una donna sia un qualcosa di regolabile con delle leggi».

In una recente intervista ha parlato della cultura come forma di riscatto. Cosa vuol dire?

«La cultura ti rende libero di scegliere e quando non c’è si è più manipolabili. Pittori, musicisti, scrittori, praticando l’arte hanno seguito un percorso verso la conoscenza di se stessi, verso la libertà. Per questo, un rapporto con l’arte porta a una crescita personale, che ti rende in grado di riconoscere la bellezza e la monnezza. La conoscenza può essere anche usata come un’arma contro il potere e le sue coercizioni, soprattutto mentali. Insomma, ti può insegnare a dire la parola no, al brutto e a ciò che è ingiusto».

Con il brano “Scendi giù” ha ottenuto il premio di Amnesty International per i diritti umani. Cosa ha significato scrivere quella canzone?

«È nata da un sentimento di frustrazione sorto davanti ad alcune famose sentenze italiane su dei giovani morti per mano delle divise, di chi detiene il potere. È stata la mia personale forma di vendetta non violenta».

A proposito di diritti umani, cosa pensa di quello che sta succedendo con i migranti?

«Penso che si siano persi quei valori di fraternità e uguaglianza su cui si basa la nostra Costituzione. Una parte grande del Paese parla degli immigrati in termini nauseanti e spaventosi. Ma in realtà sono persone come noi che scappano dalla morte, anzi, sono più coraggiosi di noi, abituati a chinare la testa senza reagire. Ma credo sia questione di ignoranza, nostra e di chi ci governa».

“Cambiano i governi ma non cambiano gli schiavi” dunque

«La schiavitù più grave, oggi, è quella mentale: ci si lamenta senza studiare una soluzione, si è persa la capacità di immaginarsi una possibilità di ribellione. E la cosa brutta è che le soluzioni non può trovarle certamente la politica, ridotta solo a propaganda al servizio dell’economia. Oggi gli unici soggetti che fanno politica e che mettono ancora l’uomo al centro della loro riflessione sono le associazioni non governative, come Amnesty, Emergency e altre».

Per chiudere, va ancora spesso al “Bar della rabbia”?

«La rabbia viene dalla delusione e rimane rabbia se non fai niente. Si supera costruendo la tua resistenza, i tuoi rapporti, i tuoi studi, che ti aiutano a comprendere. Almeno, così, non è più rabbia cieca, ma diventa incazzatura: impari come e dove andare a colpire e come poterti difendere».

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