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Giovanni Carpanzano

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Intervista al regista catanzarese Giovanni Carpanzano che si apre al Quotidiano sull’ultima sua opera “Il vuoto”, una vera storia d’amore

UNA storia d’amore è sempre una storia d’amore. Ne siamo convinti? Quando è che ci riconosciamo nelle immagini e nella narrazione anche di qualcosa che è diverso da noi, che sembra lontano ma che forse non lo è? C’è un film che può aiutarci in questo. Si tratta de “Il vuoto”, lungometraggio del regista catanzarese Giovanni Carpanzano, tra l’altro docente presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, che debutta sul grande schermo con una storia autobiografica, grazie al sostegno della Fondazione Calabria Film Commission e del Ministero della Cultura e Regione Lazio – Fondo per l’audiovisivo, alla collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Catanzaro e Ciakalabria e al supporto di Planet Multimedia. Abbiamo parlato con il regista.

Giovanni Carpanzano, “Il vuoto” è la tua opera prima e so che nasce da una vicenda autobiografica. Raccontiamo cosa c’è di te e cosa riguarda cercando di non fare spoiler eccessivo.

«Allora cercando di non fare spoiler eccessivo dirò che anche la nascita del film ha una realtà autobiografica, perché io ero a lezione e dicevo ai ragazzi che per fare i registi, prima di poter raccontare le vicende degli altri dovete essere in grado di raccontare le vostre storie. Ho cominciato a pensare a me e praticamente mi sono reso conto che stavo scrivendo il soggetto del film, cioè la storia di due ragazzi in una Calabria di 25 anni fa, che si conoscono, si incuriosiscono e si innamorano, in un ambiente dove l’omosessualità era fortemente contrastata. Non era senz’altro una vicenda facile da raccontare con semplicità.
A quel punto mi sono reso conto che questo era il soggetto del film che stavo cercando di realizzare. Siamo di fronte ad un archetipo, alla vicenda di un amore impossibile? Tutti noi quando vediamo una storia d’amore ci sentiamo partecipi, la sentiamo come sia la nostra, che sia etero o omossessuale, specialmente quando vive in un ambiente ipocrita o con delle difficoltà che le danno le connotazioni dell’amore impossibile».

Tu hai dichiarato poi che il cinema è più emotivo del teatro. Come si esprime questa diversità?

«La questione è il mezzo naturalmente. Col teatro tu sei presente alla performance e quindi questo c’è sempre un carattere live, una parte di imprevedibilità dove ognuno reagisce in base ai propri sensi. Ovunque sei seduto puoi guardare dove vuoi. Nel cinema tu quello che guardi e la visione dell’inquadratura. È il mezzo, la differenza è il mezzo, cioè le inquadrature diventano almeno in questo lavoro una cifra emotiva».

Come si fa a raccontare se stessi? Lo dico proprio a te che sei che insegni regia teatrale e sei regista teatrale, stando dietro la macchina da presa allora?

«Sicuramente per raccontare se stessi bisogna avere una buona dose, una buona capacità di estraniarsi, cioè quella cosa che tu racconti deve essere risolta nella tua vita perché sennò rischia di diventare autoreferenziale. Quindi l’esempio, che ho fatto già altre volte è quello di un ciclone. Cioè se io sono nell’occhio del ciclone quindi sono nella tempesta non la guardo lontano, però sono in una situazione dove c’è calma, almeno apparente e quindi cerco con oggettività di vedere queste emozioni che intorno a me hanno una dinamica.
Quindi diciamo la capacità di raccontarsi è quando tu ti estranei e ti vedi di fronte a te in una in una posizione dove tu sei con gli altri ma nello stesso tempo riesci a vedere come questa storia può diventare di tutti e non più solo la tua storia, dove devi raccontare per forza che tu hai ragione. Per poterti raccontare devi in qualche modo far sì che la tua storia diventi più ampia, più archetipica, che appartenga a tutti».

Il vuoto, tra l’altro, ha vinto il Festival LGBTQ Plus Award, che è un riconoscimento importante soprattutto riguardo il tema del riconoscimento e del diritto alla diversità. A che punto siamo in Italia su questo cammino? E non parlo tanto a livello giuridico, ma nella sensibilità de delle persone, perché non ti sembra che la politica stia più indietro rispetto all’opinione pubblica?

«Assolutamente sì. Il film nasce con un obiettivo anche politico, cioè quello di normalizzare qualcosa che non dovrebbe più essere classificato LGBT, cioè questa non è una storia d’amore LGBT, ma una storia d’amore. Quindi la politica sta indietro? Sì, perché noi abbiamo avuto il + 14 della censura, quando a 14 anni i ragazzi sono già avanti dal punto di vista della sessualità, quindi la politica è indietro assolutamente rispetto alla società e questo lo dimostra. Cioè io sono sposato con un uomo, abbiamo un figlio e nella società questo affronta meno problematiche di quelle che possono sembrare invece al livello della politica. Dove c’è una maggiore normalità è nella sanità quando vado in ospedale con mio marito, o nella scuola dove va nostro figlio e in altre situazioni. La società è proprio più avanti. Vuole vivere.
Allora il film è un’occasione per raccontare nuovamente un punto di vista per poter scardinare, soprattutto l’obiettivo è scardinare. Tant’è vero che io ho voluto attori che non fossero omosessuali. Proprio per evitare il cliché e per dimostrare che l’attore fa l’attore e che una storia d’amore è una storia d’amore e basta».

Come è stato il rapporto con un produttore come Luca Marino, che dal 2018 sta mietendo successi e anche con le varie location calabresi dove siete stati?

«C’è stata una grande armonia, abbiamo lavorato veramente bene. Il gruppo di lavoro è stato fantastico. L’accoglienza sui posti è stata di curiosità da una parte, ma anche di grande collaborazione. C’è ancora quella verginità nel territorio che genera una disponibilità totale mettendo a disposizione case, ville, locali. Una disponibilità gioiosa».

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