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VIBO VALENTIA – Poco più di ore di dichiarazioni durante la quale ha ripercorso tutti i suoi rapporti con quelle persone che lo avrebbero messo sotto usura. Udienza fiume, quella di ieri al maxiprocesso “Genesi” che vede imputate 45 persone, legate ai principali clan mafiosi del Vibonese, accusate a vario titolo di associazione mafiosa, armi, droga, estorsioni, usura e altro ancora.  Udienza nel corso della quale Alfonso Carano, teste portato dall’accusa, rappresentata in aula dal pubblico ministero della Dda, Simona Rossi ha riferito non solo circostanze legate all’usura che avrbbe subito, ma si è spinto anche oltre, parlando di due episodi: nel primo venne portato in un casolare mentre nel secondo, molto più drammatico, fu «costretto a scavarsi la fossa mentre gli veniva puntato contro un fucile automatico». E sono stati, appunto, questi alcuni dei passi più importanti della sua deposizione. 

Entrambe le vicende risalgono al ’94 e scaturiscono da un furto avvenuto nella tabaccheria della quale formalmente lui era ancora il titolare ma di cui aveva ceduto l’attività ai Godino dopo aver contratto un debito di 70 milioni di lire con Luni Mancuso. «Un furto anomalo – ha riferito – in quanto non erano stati rivenuti segni di scasso e di effrazione». E in paese c’era chi sospettava che a commettere il colpo che aveva fruttato alcuni milioni di lire, fosse stato il nipote di suo fratello, Antonio Saccomanno «che a quel tempo si drogava e che veniva sempre sospettato di essere l’autore di altri gesti». Così, per tentare di difenderlo, Carano iniziò a cercare Luni Mancuso, ma «un giorno Salvatore Cuturello venne a dirmi che proprio Luni doveva parlarmi». Lui si recò, quindi, in piazza Garibaldi a Nicotera dove si «incontrò anche con Domenico Mancuso». Tutti andarono «in un casolare nei pressi della villa di Luni e mi perquisirono». A questo punto il teste non ha confermato quanto dichiarato nel verbale dei carabinieri nel quale riferiva che «Cuturello mi aveva messo una corda intorno al collo e Luni mi puntava una pistola». Ha affermato di aver dichiarato il falso perché in quel periodo ce l’aveva «con Luni per alcune cose pregresse». 

L’altro sequestro, quello in cui Carano temette per la sua vita, fu, come detto, quello che si verificò a distanza di poco tempo quando venne chiamato  da «Vincenzo Addesi. Con una scusa mi disse che dovevamo vederci e aggiunse di raggiungerlo al Bar Italia. Una volta arrivato in auto sono saliti lui, Luni e Francesco Mancuso. Siamo, quindi, andati in una cava a Limbadi». La motivazione di quell’episodio era sempre legata, secondo il testimone, alla vicenda del furto alla tabaccheria venduta a Mancuso. Quando scesero tutti dal veicolo Carano fu «colpito in testa con il calcio del fucile da Francesco Mancuso. Arma che era nascosta in una siepe poco distante. Hanno iniziato a minacciarmi e a chiedermi cose delle quali non ero a conoscenza, e cioè se fosse stato Saccomanno a compiere il furto. Io risposti di no perché lui non era in grado anche perché non aveva nemmeno un furgone nella sua disponibilità». Ad un certo punto, «Addesi mi diede una vanga e disse di iniziare a scavarmi la fossa mentre Francesco Mancuso mi puntava il fucile e con il quale, poi, hanno iniziato a sparare in aria alcuni colpi  circa 10 cm di distanza da dove mi trovavo». La situazione stava per concludersi tragicamente ma per fortuna del teste ciò non avvenne: «Tutto terminò con il fatto che loro si resero conto di aver sbagliato. Mi portarono, dunque, a lavarmi nell’abitazione di Diego Mancuso, in quel momento assente». 

Dopo circa una decina di giorni la refurtiva venne trovata.

 

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