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L'auto in cui morì Colloca (nel riquadro)

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VIBO VALENTIA – È stato uno dei casi investigativi e giudiziari più controversi almeno degli ultimi 20 anni conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati dopo il colpo di scena riservato dal perito del giudice che ha escluso ogni ipotesi di delitto doloso. Quello della morte di Nicola Colloca, l’infermiere 49enne di Vibo il cui corpo venne trovato carbonizzato all’interno dell’Opel Corsa della moglie data alle fiamme, in una pineta al confine tra i comuni di Maierato e Pizzo, è stato quindi catalogato come suicidio avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 settembre del 2010.

Vista la complessità del procedimento svoltosi con rito abbreviato condizionato, il gup Marina Russo ha depositato le motivazioni del verdetto dopo aver richiesto una proroga di altri tre mesi rispetto a quelli originari, quindi sei in tutto.

Il verdetto. Sette gli imputati nei confronti dei quali sono cadute le accuse mosse dalla Procura: Caterina Gentile, di 51 anni, moglie di Nicola Colloca, e Luciano Colloca (29), figlio dell’infermiere, Michele Rumbolà (65), Caterina Magro (44), Nicola Gentile (57) e Domenico Gentile (45), cognati dell’infermiere. Per loro la contestazione era concorso in omicidio e distruzione di cadavere. Alla moglie, al figlio e a Michele Rumbolà, veniva inoltre contestata la premeditazione del delitto, mentre a moglie e figlio anche l’aggravante di aver agito contro un familiare nei primi due reati. Abbreviato secco avevano invece scelto i coniugi Domenico Antonio Lentini (59) e Romanina D’Aguì (55), accusati di favoreggiamento personale per aver cercato, secondo l’accusa, di sviare le indagini fornendo false dichiarazioni ai carabinieri. I sette erano stati indagati nel novembre del 2017 dalla Procura di Vibo a seguito delle risultanze investigative condotte dai carabinieri.

Guerra di perizie. Dirimenti le conclusioni della consulenza medico-legale disposta dal giudice e il rigetto della richiesta avanzata dalla Procura e dalla parte civile di rinnovazione di un’altra perizia medica. In particolare, il professore Pietro Tarsitano, già direttore del reparto di Medicina legale dell’ospedale Cardarelli e attualmente docente dell’Università di Napoli, aveva stabilito che quello di Colloca era un suicidio e non un omicidio per come sostenuto dall’accusa sulla base della perizia dello specialista Arcudi (che aveva effettuato i primi accertamenti sul decesso), mentre il primo medico legale Katiuscia Bisogni aveva concordato con la tesi del suicidio.

Perché fu suicidio. Secondo il perito Tarsitano, dunque, il decesso di Colloca conseguì ad un arresto cardiaco per l’esposizione del corpo della vittima ad una violenta azione termica innescata dall’incendio e dall’esplosione della miscela (benzina-aria contenuta nella bottiglietta); e l’ipotesi suicidiaria, rispetto a quella omicidiaria, è maggiormente compatibile con l’esito degli accertamenti tecnici effettuati (esame dei campioni macro e microscopici, esame tossicologico); inoltre, gli esami radiografici eseguiti permettono di escludere l’azione di armi od oggetto contundenti nei distretti esaminati. «Su tale ultimo aspetto – rileva ancora il gup Russo – il prof. Tarsitano specifica che l’assenza di ossa della volta è compatibile con l’azione esplosiva della violenta temperatura dell’incendio, tuttavia non permette di escludere con certezza altra azione lesiva».

Colloca vivo al momento dell’incendio. Un dato importante e dirimente sulla dinamica del decesso – che era emersa già durante la prima autopsia eseguita dalla Bisogni – proviene sempre dalla consulenza medico-legale secondo la quale si può «riaffermare che Colloca era vivo al momento del violento incendio», per cui sulla base di quanto esaminato il consulente aveva concluso «che il decesso di Colloca, «con alta verosimiglianza, vicina alla certezza scientifica fu da ascriversi ad un abbruciamento conseguito ad una violenta fonte di calore che indusse la carbonizzazione di parti del corpo».

Cloroformio per perdere i sensi. Un ulteriore aspetto importante della dinamica del decesso riguarda la presenza di tracce di cloroformio nei tessuti della vittima. La domanda alla quale rispondere era: come poteva l’infermiere lasciarsi bruciare senza che prendesse il sopravvento qualsiasi reazione o istinto di sopravvivenza? La presenza di tale sostanza rappresenta una spiegazione plausibile a giudizio del consulente del magistrato. Il perito sosteneva la assoluta compatibilità dell’assunzione di cloroformio con il successivo appiccamento dell’incendio».

Nessuna prova a carico degli imputati. Così descritti i principali elementi di prova, «si impone l’assoluzione di tutti gli imputati dai reati rispettivamente ascritti per totale assenza di prova». Ed è risultata «carente proprio la prova dell’evento omicidiario tale da fondare l’assoluzione con formula piena, non avendo alcun elemento da cui poter inferire che a seguito della pianificazione dell’omicidio da parte di Gentile Caterina, Colloca Luciano e Michele Rumbolà per motivi economici e sentimentali non ulteriormente circostanziati e riscontrati, sia stato poi eseguito materialmente il delitto da parte del figlio Luciano mediante un colpo alla testa inferto con un calcio di pistola, mai rinvenuta o ricercata».

Ulteriori carenze investigative. La Russo non usa mezzi termini per valutare l’attività investigativa a suo parere caratterizzata da molte lacune: «Va, altresì, rilevata la carenza investigativa in ordine alle acquisizioni dei filmati di altri sistemi di videosorveglianza, ad esempio, dell’obitorio e del distributore di benzina in cui risultava con certezza essere avvenuto il passaggio dell’Opel, alla ricerca di informazioni dirette presso tali luoghi, alla ricerca delle modalità del reperimento del cloroformio da parte del Colloca. Va, da ultimo, rilevato che non è stato rinvenuto, né all’interno né all’esterno dell’autovettura, nelle immediate adiacenze, alcun dispositivo, ordigno o congegno né alcun contenitore di benzina diverso dalla boccetta ubicata nella parte anteriore sinistra del veicolo».

Le conclusioni. Analizzato, dunque, ogni aspetto emerso nel corso del dibattimento e constatata la circostanza che si sia stati in presenza di un evento suicidiario, la conclusione del giudice Marina Russo non poteva che essere una sola: «L’assoluta carenza di prova non può che indurre ad una pronuncia assolutoria di tutti gli imputati. Come osservato nel corso del giudizio, la finalità del processo non è la ricerca delle cause e delle modalità del decesso di Nicola Colloca (obiettivo tipico della fase delle indagini preliminari che avrebbe dovuto indurre probabilmente l’ufficio di procura a non esercitare l’azione penale, almeno in siffatti termini), quanto piuttosto la verifica della fondatezza della ricostruzione accusatoria mossa a carico degli odierni imputati, non corroborata dagli esiti delle prove raccolte».

Il Collegio di difesa e la parte civile. Il Collegio di difesa è stato composto legali Pietro Chiappalone, Guido Contestabile, Salvatore Pronesti, Franco Muzzopappa, Vincenzo Gennaro e Bruno Ganino, mentre a sostenere le ragioni dei familiari di Colloca (padre e sorella), costituitisi parte civile, è stato l’avvocato Diego Brancia.

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