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Andrea Mantella

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Le verità sull’omicidio Gancitano: la Corte d’assise deposita le motivazioni con cui ha condannato il solo Andrea Mantella. Il “Picciotto” ucciso perché il clan Lo Bianco-Barba temeva un suo pentimento. Il corpo mai ritrovato


VIBO VALENTIA –  “Gli elementi emersi dall’istruttoria dibattimentale consentono di ritenere provata la penale responsabilità di Andrea Mantella”, mentre per Filippo Catania, Carmelo e Paolino Lo Bianco e Vincenzo Barba  “la chiamata di correo effettuata dal collaboratore, seppur dotata dei crismi richiesti dalla impostazione codicistica, non è adeguatamente supportata da riscontri”.

Sono le conclusioni a cui perviene la Corte d’Assise di Catanzaro nelle motivazioni della sentenza di “Rinascita-Scott” riguardante il filone degli omicidi. E l’omicidio in questione è quello di Filippo Gancitano, commesso  il 27 gennaio 2002  e il cui corpo non è mai stato ritrovato. Un caso di lupara bianca che ha avuto un primo riconoscimento in via giudiziaria con la sentenza di condanna del solo collaboratore di giustizia, cugino della vittima, a 14  anni di reclusione.

L’INDAGINE

L’inchiesta era partita a seguito delle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie di Mantella raccolte dal luogotenente del Ros di Roma, Donenico D’Ippolito che aveva sentito a sommarie informazioni anche i familiari e conoscenti della vittima – anche circa la sua omosessualità ed effettuato due sopralluoghi: il primo sotto il suolo della fattoria della famiglia di Mantella; il secondo (dopo aver ricevuto dei riferimenti più precisi da Mantella) a circa 50 metri di distanza, entrambi però si erano conclusi con esito negativo, più in particolare il secondo, tenuto conto della presenza di un muro contenitivo di cemento armato di circa 30 metri (non presente alla data dell’omicidio), aveva impedito la prosecuzione delle indagini.

GLI OMICIDI COMMESSI COL CUGINO

Gancitano organico al clan Lo Bianco-Barba

Gancitano, viene inquadrato da alcuni pentiti come organico al clan Lo Bianco-Barba e con lui, il collaboratore riferisce in aula di aver commesso tre omicidi (non contestati in questo filone): “Il duplice omicidio di Callipo-Tavella e l’omicidio di Michele Neri, sempre per nome e per conto di Barba -Lo Bianco, in quel contesto lì, praticamente i mandanti di questi tre omicidi sono sempre Enzo Barba, Paolino Lo Bianco, Filippo Catania e Carmelo Lo Bianco”.
Sul primo fatto di sangue aveva anche riferito la causale raccontando che i due ragazzi erano stati puniti “perché si sono trattenuti il bottino di una rapina e quindi mi diedero mandato Enzo Barba, Lo Bianco Paolino e Filippo Catania e Carmelo Lo Bianco di ucciderli e così ho fatto…”; allo stesso modo aveva riferito le modalità: “Questi due ragazzi sono stati attirati dentro una trappola, che la trappola l’ha organizzata Vincenzo Barba tramite il suo nipote Giuseppe Barba, alias Pino Presa, hanno convocato questi due ragazzi con la scusa che c’era in atto un’altra rapina, ai tempi si diceva “milionaria “, ecco.

Questi due ragazzi abboccano e hanno detto: “Vai con Andrea – che sarei io –  con il Picciotto — che sarebbe Gancitano, perché questo era l’alias – e con Renato – questo sarebbe Renato Furlano, che ha concorso con me quella mattina – andate con la jeep, una Suzuki Vitara, a prendere la moto e i caschi, così fate questa rapina”. E io avevo l’ordine ben preciso di uccidere questi due ragazzi”.

I dettagli di Mantella

Più nei dettagli Mantella, che però non ricorda l’anno esatto precisando tuttavia che all’epoca era minorenne, aveva raccontato di essere giunti all’acquedotto “dove ai tempi era in costruzione quella strada che si chiama… la strada est, dove c’è la mia azienda (sotto il costone del castello di Vibo, ndr), ed era pure il mio domicilio, ma ai tempi non si poteva arrivare da questa parte, perché praticamente si entrava dal lato carcere di Vibo Valentia e si facevano due o trecento metri ad entrare in questo cantiere e lì c’era una cabina dell’acquedotto. Ci siamo fermati e lì io ho sparato a tutti e due e li ho uccisi, uno è morto subito, l’altro ho finito i proiettili e purtroppo l’ho dovuto abbattere con dei sassi, insomma, è stata una cosa brutta”.

Circa l’uccisione di Neri, Mantella aveva dichiarato in aula che avvenne negli anni ’90, quando era maggiorenne, aggiungendo che “Filippo Gancitano era  il pupillo di Filippo Catania” che il delitto avvenne a Vena di Ionadi,  e che quel giorno a guidare la Cagiva Freccia Rossa 125 era Gancitano e lui dietro: “Lo beccammo mentre era fuori dall’auto con il bagagliaio posteriore aperto, con i bidoni dell’acqua. Lui fece il gesto di prendere un borsello e siccome Enzo Barba mi disse che questi girava sempre armato, feci finta di sganciarmi il casco e lo spiazzai e gli sparai addosso con una revolver calibro 32 uccidendolo”.

IL MOVENTE DELL’OMICIDIO DI GANCITANO

Mantella e l’altro pentito, Bartolomeo Arena, avevano raccontato ancora in aula il movente del delitto, intanto riferendo come nella comunità criminale fosse noto che la vittima avesse tendenze omosessuali anche se per quel che gli risultava, la stessa aveva avuto rapporti anche con donne, e che addirittura era emerso che per periodi temporali, coincidenti con il periodo in cui è stata progettata l’azione omicidiaria, avesse anche “coabitato con un ragazzo presso l’abitazione dei suoi genitori (di Gancitano). Il movente sarebbe però da ricercarsi nel pericolo che Gancitano “che si sentiva abbandonato dal proprio clan di appartenenza durante la detenzione in carcere fino al 2001” potesse collaborare con la giustizia.

LA DINAMICA DELL’OMICIDIO GANCITANO

Mantella aveva riferito ancora della modalità dell’uccisione di Gancitano avvenuta nella sua masseria: “Arriva mio fratello Nazareno in auto con il povero Gangitano; dietro un ballone di fieno, quelli grandi, era nascosto Francesco Scrugli. Dal lato passeggero scende Gangitano  e Scrugli, appena ce l ‘ha sotto tiro, gli spara una fucilata in faccia e addirittura gli porta via tutto il capo. Mio fratello Domenico, che stava cibando gli animali, i vitelli dentro la masseria, sente sparare ed esce fuori. Praticamente arriva vede la frittata già fatta. Rimangono quindi coinvolti in questa situazione, prendono dei sacchi di mangimi, in uso per gli animali, mettono dentro questo cadavere, lo mettono sopra una carriola e lo portano dall’altro lato della masseria di mio papà e lo sotterrano lì”.

IL NARRATO DI ARENA

Ulteriori elementi erano poi forniti da un altro pentito, Bartolomeo Arena. Questi aveva affermato che il mandato omicidiario era stato chiesto a lui, per il tramite di suo cugino, da Mantella ma di essersi rifiutato perché conosceva il “Picciotto” fin da bambino. Aveva confermato le fasi del delitto per come apprese da Francesco Antonio Pardea.

OMICIDIO GANCITANO, IL MISTERO DEL CORPO

Il cadavere però non è mai stato ritrovato. Questo perché Andrea Mantella non ha partecipato alla sepoltura che sarebbe comunque avvenuta nella zona in cui c’era la sua azienda. A farlo sarebbero stati infatti Scrugli e i fratelli del pentito. Il primo avrebbe riferito che il seppellimento con pale e badili avvenne vicino ad un canale ma che, qualche tempo dopo, Domenico Mantella, pascolando gli animali si era accorto che il corpo era visibile in quanto dissotterrato da animali selvatici, circostanza che aveva indotto il collaboratore, una volta informato, a dare disposizioni affinché con gasolio e copertoni fossero bruciati i resti. Circa il luogo esatto, all’esito della nuova operazione, Mantella non ha escluso che il fratello possa avere spostato il cadavere.
Il pentito Arena invece aveva aggiunto di aver appreso da “Francesco Antonio Pardea che fu Domenico Mantella a dirgli che l‘aveva spostato lui Gancitano e quindi non lo troveranno mai, perché nemmeno Andrea sa dove sia il corpo”.

LE CONCLUSIONI DELLA CORTE

Per i giudici le dichiarazioni autoaccusatorie di Mantella, ossia una vera e propria confessione, sono del tutto “attendibili intrinsecamente come si è potuto appurare dall’analitico esame delle emergenze istruttorie, perché certe e raccolte nel corso dell’esame sostenute dinanzi alla Corte, dettagliate, spontanee, coerenti e costanti. Peraltro, il dato oggettivo emerso dalle produzioni acquisite agli atti del processo, la ricostruzione del contesto e della causale così come emerse dal dichiarato del collaboratore Arena, sono del tutto coerenti con le dichiarazioni del Mantella”.

I PERCHE’ DELL’ASSOLUZIONE DEGLI ALTRI IMPUTATI PER L’OMICIDIO GANCITANO

Dalle dichiarazioni di Mantella

Quanto alle dichiarazioni del Mantella inerenti ai coimputati, ci riferisce al momento ideativo dell’azione criminosa, estrinsecatosi nell’incontro, presenti a dire del Mantella, Carmelo Lo Bianco, Vincenzo Barba, Filippo Catania, Paolino Lo Bianco, oltre il collaboratore stesso, in cui tutti si espressero per l’uccisione del Gancitano. Della cui esecuzione fu incaricato proprio Mantella, che progettò ed organizzò l’azione criminosa. La chiamata di correo effettuata dal collaboratore, seppur dotata dei crismi richiesti dalla impostazione codicistica, secondo la Corte non è adeguatamente supportata da riscontri
“A fronte di una precisa, lineare e coerente ricostruzione effettuata dal Mantella non emergono riscontri del tipo di quelli richiesti per poter addivenire all’affermazione della penale responsabilità, dal momento che il dichiarato del collaboratore Arena Bartolomeo, se dà conferma alla ricostruzione della figura di Gancitano ed alla causale dell’omicidio così come ricostruita dal Mantella (compresa la sua partecipazione), non fornisce supporto al dichiarato del Mantella circa i correi nell’azione omicidiaria”.

Dalle dichiarazioni di Arena

Arena nel sostenere la causale del fatto di sangue, ossia evocando il timore che il Gancitano potesse collaborare con la giustizia (peraltro narra di circostanze apprese per i contatti diretti con la vittima), ha sostenuto che erano in tanti a temere il contegno di Gancitano nell’ambito della consorteria criminale di appartenenza Lo Bianco-Barba (“Ma tutta la società di Vibo, non solo Andrea Mantella, Carmelo Lo Bianco, Vincenzo Barba, un po’ tutti, un po’ tutti”).
Ma allorquando, anche con l’aiuto delle contestazioni, il pubblico ministero ha invitato a fare nomi al collaboratore, questi “ha sostenuto che si temeva una possibile collaborazione perché con le sue accuse poteva nuocere ai suoi sodali ed in particolare Carmelo Lo Bianco e Andrea Mantella avevano da temere in quanto, specie con quest’ultimo, aveva una certa confidenza e gli faceva un sacco di lavori e che “che un po’ tutti a Vibo lo temevano, perché Filippo Gangitano aveva partecipato a diverse questioni”.
Ma per i giudici tali affermazioni si appalesano essere più che altro delle deduzioni del collaboratore e non degli elementi di sua conoscenza tali da supportare la chiamata di correo.

Da qui la condanna del solo Andrea Mantella e non degli altri imputati.

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