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Emanuele Mancuso

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«CHI scrive è Emanuele Mancuso “Rampollo del clan Mancuso di Limbadi”». È l’incipit di una lunga lettera che il collaboratore di giustizia fa pervenire alle testate giornalistiche per il tramite del proprio legale, l’avvocato Antonia Nicolini.

Tre pagine per denunciare il suo «stato di frustrazione e preoccupazione» per le sorti della figlia, di soli 30 mesi di vita, in quanto, nonostante le notorie «vicende legate alle pressioni da me subite per la scelta intrapresa, scaturite nel procedimento penale, in fase di trattazione, a carico della mia ex compagna e dei miei congiunti, ad oggi, ella, seppur sottoposta allo speciale programma di protezione, nella realtà dei fatti, grazie alla disponibilità della madre, Nensy Vera Chimirri, mantiene contatti con gli ambienti ‘ndranghetistici».

Il 31enne ricorda proprio come la nascita della figlia e la speranza di darle un futuro migliore siano state le motivazioni che nel 2018 lo indussero a collaborare con la Dda (il primo pentito intraneo alla famiglia di Limbadi), un futuro «diverso, lontano dal contesto sociale e criminale di mia appartenenza. E per tale motivo, da padre, non posso accettare quello che sta succedendo».

Le sue parole sono indirizzate al Tribunale dei minori di Catanzaro, e al riguardo racconta la genesi della vicenda: «La mia scelta non è stata condivisa da Nensy la quale ha, prontamente, rifiutato la collocazione in località protetta e l’ammissione allo speciale programma di protezione rimanendo, invece, legata alla famiglia Mancuso, condividendone lo stesso tetto insieme alla bambina».

La Procura Minorile di Catanzaro, per «tutelare mia figlia – racconta ancora l’ex esponente del clan di Limbadi – in grave pericolo per le dichiarazioni da me rese, alcune delle quali discoverate, nei primi mesi del 2019, ha avanzato al Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, richiesta di immediato allontanamento della minore dalla Calabria con collocazione in località protetta. Ma i giudici, inspiegabilmente, per ben tre volte, hanno provveduto a rigettare tale richiesta, lasciando la minore sul territorio, incurante del grave pericolo che incombeva, seppur conscio del fatto che pendeva e pende, sulla mia testa, una taglia, di circa un milione di euro, messa da Luigi Mancuso (lo zio, e capo supremo della consorteria, ndr)».

Tutto questo, per Emanuele Mancuso è una «beffa in quanto la mia bambina è stata allontanata dal territorio vibonese, unitamente alla madre “se consenziente” – così stabilisce il Tribunale per i Minorenni di Catanzaro – con decreto provvisorio, alquanto discutibile, dopo circa un anno dall’inizio del mio percorso di collaborazione e solo dopo il tentato omicidio di Domenique Signoretta, uomo di fiducia di Pantaleone Mancuso, alias “L’ingegnere” (il padre, ndr)».

Ed è, sempre a parere del 31enne, una decisione “discutibile” quella dei magistrati in quanto, «incomprensibilmente, con tale decreto, il Tribunale per i Minorenni ha, nella realtà dei fatti, “incaricato la madre” ad occuparsi della crescita e dell’educazione della bambina, indifferente del fatto che, ella, non si è mai dissociata dalle logiche ’ndranghetistiche. Inoltre, illegittimamente, il Tribunale per i Minorenni ha provveduto, con il medesimo decreto, a limitare, anche, la mia responsabilità genitoriale per i miei precedenti penali. È assurdo. Infatti, a seguito di impugnazione, tale provvedimento, sul punto, è stato letteralmente disintegrato dalla Corte di Appello di Catanzaro, Sezione Civile Minori. Mia figlia, ad oggi, continua a vivere con la madre, legata, senza ombra di dubbio, alla cosca Mancuso».

Tira in ballo, dunque, anche la propria famiglia, Emanuele Mancuso riferendo di circostanze che ruoterebbero, a suo dire, su un’azione finalizzata ad impedirgli di vere la piccola: «Ci sono faldoni pieni di intercettazioni che acclarano che la bambina è in mano alla ’ndrangheta ed usata come merce di scambio. In quasi tre anni ho visto mia figlia poche volte, in quanto la madre ha sempre cercato di impedirne i contatti, operando continue vessazioni nei miei confronti e soprattutto con l’indifferenza di un Tribunale per i Minorenni che è rimasto inerte alle mie continue e numerose segnalazioni. Chiedo solo giustizia», la chiosa del collaboratore di giustizia.

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