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Pippo Callipo

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«Non lascio la Calabria», il “Re del tonno” Pippo Callipo si racconta al Quotidiano: dalla sicurezza alla lotta alla criminalità fino al lavoro sommerso

VIBO VALENTIA – I macchinari continuano ad essere in funzione, a pieno regime come sempre. Dai capannoni entrano ed escono operai, dai cancelli i camion con le destinazioni più disparate. Nel palazzo che ospita gli uffici i telefoni squillano, i computer sono accesi, i dipendenti continuano a lavorare con il solito piglio. E anche nell’ufficio di presidenza il patron dell’azienda è al suo posto, cellulare in una mano e penna nell’altra. È questa normalità che colpisce subito entrando nello stabilimento Callipo di Maierato. Eppure appena pochi giorni fa un altro grave attentato ha colpito il patron dell’azienda con gli spari al magazzino di San Pietro Lametino.

Qualche breve minuto di anticamera e poi l’ingresso nella sala in cui si staglia la figura di Callipo che ci accoglie col suo proverbiale calore e la consueta cortesia. “Le chiedo scusa per l’attesa” esordisce, spiazzandoci, perché quell’attesa non era stata superiore ai 5 minuti. Ma Pippo Callipo è così: una persona che non ha problemi a chiedere venia ma neanche a mandarle a dire. Il suo volto è ancora corrucciato dall’intimidazione subita ma che anche questa volta non lo ha piegato. Ci fa accomodare e chiacchieriamo con lui. Alla fine, le lancette dell’orologio segneranno 45 minuti tra l’intervista e qualche battuta a taccuini chiusi.

Presidente, sono passati diversi giorni dall’attentato. A mente fredda qual è il suo stato d’animo?

“Un misto tra preoccupazione e determinazione ad andare avanti. Preoccupazione perché noto che non c’è la volontà di far cambiare le cose; determinazione perché non è il primo episodio grave che subisco e quindi so come affrontarlo”.

Ormai, dice, è temprato da fatti di questo tipo.

“Diciamo che sto vivendo un déjà vu perché nel 2016 i colpi al Popilia Resort, alla fine del primo decennio del nuovo millennio un analogo episodio allo stabilimento, prima ancora l’episodio in zona Prangi. Ritengo che anche l’ultimo sia il messaggio che mi si vuole mandare per approcciare un certo discorso”.

Però, ormai non si può non sapere che Pippo Callipo non è uno che si piega ma anzi che denuncia simili attentati. Eppure…

“Eppure c’è chi ancora pensa di aprire una strada. Io, di strade, nel conosco solo due: la prima è quella che conduce ai carabinieri di Vibo, la seconda porta al commissariato di Lamezia dove abbiamo sporto denuncia. Certo, destabilizzano un po’ perché gli operai si preoccupano ma io cerco sempre di rassicurarli per quanto possibile. A loro ho detto di stare tranquilli perché se mai avessi dovuto preoccuparmi di chi mi vuole fare del male avrei dovuto andarmene già tantissimi anni fa. E invece sono ancora qua”.

Forse in questa vicenda, l’aspetto che più le ha fatto rabbia è il mancato funzionamento delle telecamere della zona industriale.

“Esattamente. Sono arrabbiatissimo. Lì ci sono milioni di euro già stanziati, soldi dei cittadini, ma gli impianti sono inattivi. Perché? Per quale motivo questa inerzia? Eppure ci sono tante altre aziende in zona a rischio attentati e non si fa nulla per garantirne la sicurezza. Ecco da dove nasce questa mia vena pessimistica”.

È chiaro che le sue sono domande che deve farsi la politica ma anche la magistratura.

“Ma è naturale, è sempre stato detto che un sistema di videosorveglianza non solo rappresenta un’arma in più per individuare i responsabili di un gesto criminoso ma funge anche da deterrente. Gli autori dell’attentato al Popilia sono stati individuati grazie alle telecamere”.

A seguito di quanto avvenuto, le sono giunti fiumi di solidarietà. Ma in concreto cosa rimane dopo?

“Purtroppo nulla. Intendiamoci, le parole di vicinanza fanno sempre piacere ma quando i riflettori si spengono, solitamente un paio di giorni dopo, tutto torna come prima. Spiace dirlo ma è così. Tutte le buone intenzioni di fare qualcosa si esauriscono non appena il clamore passa. Sarebbe bello invece se alle parole seguissero i fatti. Quanto sarebbe stato bello che oggi le annunciassi di aver avuto notizia che le telecamere nell’area industriale saranno attivate a breve. Io ho le spalle larghe per andare avanti ma c’è molta gente che a differenza del sottoscritto accusa il colpo ed è costretta a chiudere l’attività. A questo non ci si pensa mai”.

Pippo Callipo è un imprenditore di successo, è stato presidente di Confindustria Calabria e provinciale, è stato anche in politica. Da oltre 50 anni fa parte della storia di questa regione, vantando esperienze in vari campi. Quindi ha una visione ad ampio raggio e quando afferma che manca la volontà di cambiamento che risposta si dà?

“Non c’è una risposta singola, ma diverse. Credo tuttavia che esista da un lato una precisa volontà a mantenere le cose come stanno e dall’altro una sorta di rassegnazione dettata proprio dal primo aspetto. E mi creda, pensare che le cose non possano cambiare è ancora più devastante perché si instilla l’idea che ogni tentativo di fare il contrario è inutile. Quando alla gente togli la speranza, togli tutto”.

Non le sembra una visione troppo pessimistica?

“Ovviamente mi auguro di sbagliarmi, ma non credo di essere l’unico a pensarla in questo modo. Così come penso che abbiamo tante potenzialità e persone perbene ma che restano confinate nel loro mondo perché si autoescludono o vengono messe nelle condizioni di stare ai margini”.

Lei ha provato a cambiare le cose candidandosi in politica ma poi cosa non ha funzionato?

“Tante cose, ma soprattutto è un mondo che non mi appartiene perché è caratterizzato da atteggiamenti e situazioni che non posso condividere. Quando mi candidai la seconda volta mi si fece presente che era meglio non dire che la gente doveva pretendere il cambiamento oppure di non annunciare, in caso di mia elezione a presidente, la volontà di voler istituire una linea telefonica diretta con i cittadini in quanto “le persone stanno bene così, si sarebbero spaventate”. L’intenzione era chiara: mantenere quel sistema che fino ad oggi ha governato la cosa pubblica. Ma ci rendiamo conto?”.

La politica è un capitolo chiuso, quindi?

“Sì. Ci ho provato, ho rischiato anche la salute, ho visto che da solo non si può scardinare un sistema che non condivido e quindi, mio malgrado, ho dovuto lasciare. Le faccio un esempio: a marzo-aprile 2020, quindi in pieno periodo Covid, arrivò la prima indennità ma noi fino a quel momento non avevamo svolto alcuna riunione né c’erano state spese per spostamenti vari. Al che, ho suggerito di devolvere quella quota, circa 18mila euro, in beneficenza. Mi è stato risposto di no con la seguente motivazione: “Io lavoro sempre”. Ed eravamo in pieno lockdown. Avevo chiesto di accorpare la VI alla V commissione regionale perché si riuniva sporadicamente e in questo modo avremmo tagliato i costi. Anche in questo caso la risposta fu la stessa. E allora, quando dico che non c’è la volontà di cambiare ecco a cosa mi riferisco”.

Tornando al discorso di prima, c’è mai stato un momento in cui il pensiero di andare via dalla Calabria ha sfiorato Pippo Callipo?

“No, mai. Sono troppo legato al territorio e ai miei dipendenti. Preferisco stare qui, subire e combattere ma consentire loro di avere un impiego per sostenere le loro famiglie. Non sono un eroe, ma solo una persona che continua a credere in questo territorio e nelle persone perbene che lo popolano”.

Non solo criminalità ma anche lavoro nero. Lei ha più volte denunciato questa concorrenza sleale che droga l’economia. Cosa si può fare per contrastare efficacemente tale fenomeno?

“Il sommerso è una piaga in tutti i settori, soprattutto in quello della ristorazione e alberghiero. Le dico soltanto che non sappiamo se quest’anno apriremo il “Popilia Resort” perché non si trovano camerieri e quelli che vengono vogliono essere pagati in nero. Alcuni di questi avevano il reddito di cittadinanza al quale non volevano rinunciare. Ovviamente li mando via. Non capiscono che un contratto regolare è anche nel loro interesse, soprattutto in presenza di infortuni che possono sempre accadere.
Cosa fare? Intanto bisogna alzare la quota delle retribuzioni cercando di avvicinarsi quanto più possibile a quella di altri Paesi europei, poi ci vogliono maggiori controlli dell’ispettorato del lavoro e, infine, un cambio di mentalità sia nel lavoratore che nell’imprenditore. Bisogna capire che se l’economia va male a causa del sommerso, tutto il resto segue questa scia e a rimetterci saranno sempre i più deboli ma a lungo andare anche i ceti medi”.

Parlando di lavoro, che rapporto ha con i suoi impiegati e operai? È quello di un normale datore-dipendente oppure si sente più un padre di famiglia?

“Il rapporto formale non mi è mai piaciuto perché io amo stare con loro, a volte li raggiungo a mensa, altre volte li ricevo qui in ufficio. Qui c’è gente che lavora da 25-30 anni, che noi chiamiamo “senatori”, gente che è entrata qui a 18 anni e che ormai è prossima alla pensione e quindi è naturale che nel corso del tempo si instauri un rapporto che non sia quello classico datore-dipendente. A volte, alcuni colleghi imprenditori mi domandano quale sia il mio segreto e io rispondo sempre che non c’è. Ho iniziato a lavorare a 18 anni e quindi conosco quale sia il loro sacrificio quotidiano ed è da questo che nasce un rapporto di rispetto reciproco tra me e loro”.

Quindi lei continua a riceverli nel suo ufficio.

“Sì, e con piacere, anche perché a volte mi raccontano le loro difficoltà e quando posso li aiuto. Nel corso degli anni abbiamo dato numerosi incentivi economici e premi produzione anche solo per consentire loro di togliersi qualche spesa extra, soprattutto in un momento di grande difficoltà economica. In precedenza ho chiesto alla banca 1 milione frazionato a 30mila euro e l’abbiamo destinato ai lavoratori a tasso dello 0,90%. Con questa cifra ciascuno ha potuto affrontare le proprie esigenze. Quest’anno, purtroppo, il bonus è stato solo di 400 euro perché abbiamo avuto difficoltà nel chiudere il bilancio per via della guerra in Ucraina, del rialzo dei prezzi, della benzina, tant’è che ho dovuto rinunciare alla squadra di Volley maschile. Ma questa era una passione, prima di tutto viene il benestare dei miei dipendenti”.

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