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Ugo Bellantoni nel suo studio

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LA VOCE ha un tono baritonale, un po’ burbero, ma il carattere è cortese e disponibile, il viso sorridente. Si fa un po’ fatica a vedere in lui il “grande vecchio” che, secondo i suoi detrattori, per lungo tempo avrebbe determinato i destini della città. Per costoro, insomma, sarebbe il capo indiscusso di un occulto gruppo di potere in grado di condizionare pesantemente i processi decisionali, ai vari livelli, A tutto vantaggio dei “soliti noti”.

Un personaggio Ugo Bellantoni indubbiamente lo è. Geometra, classe 1936, ha sempre diviso l’opinione pubblica: se da un lato c’è chi ne ha un’idea esplicitamente negativa, dall’altro ci sono altri che per lui nutrono sincero affetto e stima incondizionata, al limite della “venerazione”. Ha lavorato per un quarantennio all’ufficio lavori pubblici del Comune. Iscritto fin dal 1970 alla massoneria, è da anni uno dei suoi massini dirigenti nazionali in qualità di Gran Maestro Onorario. Ha sempre privilegiato un profilo discreto, evitando deliberatamente le “luci della ribalta”, cosa che dà a questo colloquio un sapore particolare.

Lo incontriamo nello studio di casa, pieno zeppo di libri, cimeli, foto, riconoscimenti e simboli massonici.

Che cosa ricorda della Vibo della sua gioventù?

«L’immagine che ne ho è quella di Vibo “giardino sul mare”: una città aperta, attiva, illuminata, una fucina di iniziative di respiro anche nazionale. Fu un’età dell’oro per la città».

È entrato nel Comune come geometra.

«Sì, nel 1959 e per 30 anni sono stato vice dell’ingegnere Mancini all’ufficio lavori pubblici. Poi quando è andato in pensione, l’ho diretto per 13 anni. Un ufficio che si è distinto per onestà e correttezza».

Dicono che all’epoca lei comandava più dell’assessore e dello stesso sindaco…

«Su di me se ne dicono tante… So solo che lavoravo con grande impegno. A volte, per fare un lavoro urgente mettevo le mani in tasca e davo all’operaio le 10 mila lire per comprare cemento, bulloni e quant’altro. Era questo, era la mia dirittura morale che mi dava non potere ma autorevolezza».

Di Bellantoni si diceva che fosse il capo di un gruppo di potere occulto che condizionava la città…

«Non c’è alcun fondo di verità. Vede, io faccio parte da tanto tempo, e ne sono orgoglioso, del Grande Oriente d’Italia, la massoneria ufficiale, autorizzata, verso la quale parte dell’opinione pubblica nutre un inaccettabile pregiudizio: sei massone? Allora non puoi essere una persona onesta e trasparente. Questo è ingiusto e inaccettabile».

Non può negare però che la massoneria ci ha messo del suo… Vedi le inchieste della magistratura e gli arresti.

«Beh, anche lei confonde la massoneria ufficiale con qualche scheggia impazzita, come furono le Brigate Rosse rispetto al Pci».

Non era massoneria la famigerata P2?

«Assolutamente no. Gelli non aveva niente a che fare con i principi della vera massoneria. Ricordo che in una riunione a Napoli io votai per lo scioglimento della P2. Gelli è stato indagato e condannato. Punto. Invece le indagini di qualche magistrato sulla vera massoneria sono finite nel nulla».  

A cosa si riferisce?

«All’ex procuratore Cordova che dal 1992 indagò sulle nostre logge regolari: proprio nei giorni scorsi è stato condannato dal tribunale civile».

Non un gruppo di potere, non un centro occulto di affari… Non è un po’ troppo idilliaca la sua immagine della massoneria?

«Idilliaca? Proprio no. Ribadisco, per me, per noi veri massoni, essa è un centro di ricerca esoterica, di promozione ed elevazione morale e culturale dell’uomo e dell’umana famiglia. Può crederci o meno, ma per noi è proprio questo».

Le si attribuiscono amicizie forti e potenti ma altrettanto forti contrasti. Ha fatto epoca quello con l’allora sindaco Pino Iannello.

«Su di lui non mi voglio esprimere. Nei miei confronti nutriva il pregiudizio di cui dicevo prima: ero massone? E allora dovevo essere mandato a casa».

E invece – così dicono – è stato lei a mandarlo a casa…

«Purtroppo no (sorride). Avrei voluto ma non avevo questo potere. A “dimissionarlo” furono i suoi compagni di partito. Secondo me finì per perdere la testa. Era aizzato dal suo amico Togo che aveva grande influenza su di lui, come sanno tutti».

Lei ha operato con una trentina di sindaci. Qualche ricordo?

«Beh, De Raffaele, D’Amico… Anche qualche altro. Tutti galantuomini, oltre che buoni sindaci. Altri tempi».

Ha avuto alcune peripezie giudiziarie, con processi e accuse, anche gravi.

«Vero, ma si dimentica che sono stato sempre assolto o “per non aver commesso il fatto” o “perché il fatto non sussiste”. Una “perla”, per tutte: sono stato chiamato a processo per l’alluvione del 2006, nonostante fossi andato in pensione sei anni prima…».

Perché Vibo è così difficile da amministrare?

«Bisogna avere il coraggio di farlo, dedicandoci parecchio tempo. Vibo va amministrata con correttezza e impegno, e la legalità dev’essere la strada maestra degli amministratori».

Dice che non sempre è stato così?

«Che non sia stata amministrata bene è sotto gli occhi di tutti: Vibo è in dissesto, in sostanza è fallita».

Cosa pensa degli attuali amministratori?

«Beh, vedo che questo sindaco s’impegna… E’ che gli ostacoli sono davvero tanti, a cominciare dai dipendenti, oggi ridotti davvero all’osso. E, soprattutto, mancano dirigenti qualificati».

Per concludere: che differenza vede tra gli amministratori di ieri e di oggi?

«C’è un abisso. Allora ci si candidava per servire la città, senza aspettarsi ritorni economici, che non erano previsti. Era un impegno morale, etico verso la propria comunità. Oggi, invece, si diventa consiglieri per assicurarsi cinque anni di stipendio. Si pensa ai soldi non alla città. Salvo qualche sparuta eccezione».

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