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Il premier, durante la conferenza stampa nel giorno della riapertura dell’Italia, ha preso l’impegno di convocare gli Stati generali (dell’economia) per avviare coralmente un progetto di ripresa in base alle proposte della task force coordinata da Vittorio Colao.

In quest’ottica ha promesso di chiedere alla Ue un anticipo delle risorse che verranno stanziate nell’ambito dei diversi fondi che saranno previsti in un piano poliennale di 2,4 miliardi. Un grande intellettuale come Concetto Marchesi diceva che è sempre necessario avere in anticipo un’idea di ciò che si sta cercando perché chi parte dal nulla arriva al nulla.

LA SCELTA

Carne al fuoco ce ne è tanta, ma il governo deve scegliere con chiarezza di partecipare fino in fondo alla svolta strategica e strutturale che viene proposta dall’Unione, perché non è ammissibile che 27 Paesi scelgano insieme i percorsi e gli obiettivi per il ‘’rilancio’’ senza che, contemporaneamente, non si avvii anche un rafforzamento delle istituzioni sovranazionali.

Nel secondo dopoguerra non vi sono state esperienze definite e definibili come la convocazione degli Stati generali. Non sono mancate iniziative di convergenza tra governi e forze sociali, in particolari momenti in cui il Paese era chiamato ad affrontare passaggi cruciali. Nel 1945 e 1946 venne stabilito, in cambio di una tregua salariale, un blocco dei licenziamenti, al termine del quale venne stipulato nell’agosto 1947 un accordo interconfederale nell’industria (che fu rinnovato nel 1950 e nel 1966), il quale, per attutire gli effetti della fine del regime del blocco, prevedeva procedure di conciliazione e di arbitrato nel caso di licenziamenti individuali, allo scopo di mitigare la disciplina codicistica del licenziamento ad nutum.

Ma per arrivare a momenti riconducibili, nella sostanza più che nella forma, a un’idea di Stati generali dell’economia occorre spingersi alla seconda metà degli anni ’70, in parallelo con l’esperienza politica della “solidarietà nazionale” (che si riduceva all’ingresso del Pci nella maggioranza con i partiti del centro sinistra).

GLI ANNI ‘70

La situazione del Paese era drammatica, oppresso da un ciclo inflazionistico a due cifre e a due decine che distruggeva il potere di acquisto e taglieggiava la competitività dell’apparato produttivo.

Inoltre il Paese era sottoposto alle incursioni del terrorismo rosso e nero (bombarolo) con forti preoccupazioni per la tenuta delle istituzioni democratiche. Il 14 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse tese un’imboscata all’auto del presidente della Dc, Aldo Moro, massacrò la sua scorta, lo rapì restituendolo cadavere dopo 55 giorni di prigionia.

In nome dell’emergenza, anche economica, le confederazioni sindacali appoggiarono quel processo di intesa, magari ciascuna per motivi diversi. Cgil, Cisl e Uil misero a punto, nel 1978, la “strategia dell’Eur”, costruendo un carnet rivendicativo in cui si prospettava uno scambio tra un piano di riforme e l’assunzione di specifiche responsabilità del sindacato che, in un accordo con il governo Andreotti, accettò di accollare ai lavoratori dei sacrifici, sfoltendo alcune norme legislative e contrattuali di un certo valore economico.

LA CONCERTAZIONE

Cominciò, così, l’era della concertazione che consisteva in un vero e proprio negoziato politico tra Confindustria, Confederazioni sindacali e Governo: un processo che era divenuto sempre più complesso da quando il Pci aveva abbandonato, nel 1979, la politica della solidarietà nazionale ed era tornato all’opposizione.

Questa fase si interruppe bruscamente, dopo un lungo travaglio, con il famoso decreto di S. Valentino (il 14 febbraio 1984) che iniziò quel superamento della “ scala mobile” (la rivalutazione automatica delle retribuzioni rispetto al costo della vita che era una vera e propria fabbrica dell’inflazione) che si concluse – dopo molte vicissitudini – con il Protocollo del 23 luglio 1993 sottoscritto dalle parti sociali con il governo Ciampi.

Nel Protocollo (detto di San Tommaso) furono definite le nuove regole della contrattazione collettiva e una politica salariale che aveva il compito di consentire il rientro dall’inflazione per dar modo al Paese di adeguarsi alle prospettiva della moneta unica. Il sindacato dimostrò un alto senso di responsabilità ottenendo in cambio un riconoscimento ambito: diventare il Lord Protettore del sistema politico della Seconda Repubblica (allora non era prevista la discesa in campo di Silvio Berlusconi che avrebbe rovesciato il tavolo alternando vittorie e sconfitte entrambe clamorose).

LA PIETRA MILIARE

Il Protocollo del 1993 fu, quindi, la pietra miliare della concertazione: il tentativo di un governo neocorporativo dell’economia. In verità, l’affermarsi di una linea di concertazione avrebbe comportato una modifica degli assetti istituzionali del Paese, in modo molto più profondo (e discutibile) di quanto non sia accaduto. Nel ‘93, poi, il Sud era appena uscito da un regime generalizzato di sgravi contributivi che aveva permesso – a fatica – al suo sistema produttivo di sopportare un’uguaglianza forzata dei regimi salariali.

Nessuno sembrò rendersi conto del fatto che, per l’economia meridionale, la fine dell’intervento straordinario si era risolta, in realtà, in un imponente incremento del costo del lavoro, solo in parte compensato dalle successive misure “sfuggite” all’attenta vigilanza Ue.

Questo brusco passaggio spiega, in gran parte, il carattere endemico, in quelle aree, dell’economia sommersa. Ma il valore del Patto triangolare del 1993 non stava tanto nella dovizia di argomenti che venivano affrontati, quanto nella soluzione che le parti seppero dare non a una generica enunciazione della politica dei redditi, ma a un modello di contrattazione che garantiva, nel contempo, la fuoriuscita dal sistema di indicizzazione automatica delle retribuzioni e il tendenziale coordinamento (secondo i parametri dell’inflazione e della produttività) tra il livello nazionale di negoziazione e quello decentrato.

L’OCCASIONE PERSA

Non a caso – dopo quell’ intesa e per alcuni anni – i rinnovi contrattuali (con qualche eccezione) divennero episodi assolutamente fisiologici, risolti in un clima di pace sociale. Poi, quando quel meccanismo si stava inceppando, apparve evidente la grave responsabilità di quanti – col Patto di Natale del 1998 – persero l’occasione di introdurre le necessarie riforme contrattuali, come volevano fare Confindustria e parte dei sindacati.

Il Patto di Natale fu il canto del cigno della concertazione. Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, lo sottopose persino al voto del Parlamento, appena in tempo per prepararne il funerale.

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