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LA RECENSIONE: “PERCHÉ L’ITALIA AMÒ MUSSOLINI” DI BRUNO VESPA

Il libro di Bruno Vespa sul Duce – “Perché l’Italia amò Mussolini”, edizioni Rai Mondadori – accompagna alla verità storica una ben precisa malizia. E cioè che tutti –  ma proprio tutti ­ i campioni dell’immacolata democrazia attuale,  con un Benito vivo e vegeto a Palazzo Venezia sarebbero di certo ai suoi piedi, tutti in camicia nera. Perfino Papa Bergoglio non esiterebbe a rinnovarne, nella benedizione, il crisma di “uomo della Provvidenza”.

Di sicuro sarebbero al confino quelli oggi considerati in odore di fascismo o di revisionismo storico, Vespa in testa, mentre tutti loro –  le pie anime dell’antifascismo –  se ne starebbero in orbace a marciare per i Fori Imperiali.

Arrivando in ritardo con questa recensione, e considerate anche le vivaci polemiche contro il primo dei cronisti d’Italia, a libro letto, non si può che partire da questa implicita e conseguente malizia. Pare di vederli, infatti, i Canfora, i digitatori dell’internet, i direttori del giornale unico del conformismo, gli attori, i canzonettisti dell’impegno civile e le varie macchiette radunate intorno alla “religione civile” altrimenti detta “fascismo degli antifascisti”, fare il salto nel cerchio del fuoco gridando “A noi!”.

ANTIFASCISTI IN ASSENZA DI FASCISMO

Fanno gli antifascisti in assenza di fascismo per evitare l’incomodo “di fare gli anticapitalisti in presenza di capitalismo”. Così disse Alessandro Di Battista durante una puntata di Otto e Mezzo a un Gianrico Carofiglio che gli chiedeva di fare pubblica dichiarazione di solenne antifascismo.

Nel solco di Indro Montanelli, ovvero la nobile scienza della divulgazione, Vespa si adopera nel mettere in fila i fatti, le persone e le vicende dell’Italia fascista in un intreccio nitido e fresco come acqua di fonte. Acqua di verità, manco a dirlo, ripetendo e spiegando ai recalcitranti ciucci incuranti della musa Clio, il perché gli italiani amarono il figlio del Fabbro di Predappio. Non si fa con i se, e va bene, ma la sostanza è questa. Se Mussolini fosse morto nel 1932 –  prima della disfatta morale e materiale –  non ce ne sarebbe oggi per nessun Cavour, alcun Garibaldi e meno che mai De Gasperi. Tutte le piazze e le strade sarebbero sue e a piazza Augusto Imperatore, a Roma, dov’è il suo sepolcro vuoto, non mancherebbe la corona del Quirinale con i corazzieri in alta uniforme.

LA STORIA NON SI FA CON I SE

La storia non si fa con i se e si scrive con quello che i vincitori comandano di scrivere. E una cosa è certa, col regime forte e compiuto i paria in odor di fascismo oggi sarebbero in prigione mentre al contrario, tutti i caporali del potere di oggi sarebbero dove sono già adesso; tutti al comando, tutti beneficiati di gloria, onori e solide carriere. Uno Zerocalcare oggi – per capirsi – s’incaricherebbe d’affrescare le prefetture d’Italia, coprendo i dipinti di Duilio Cambellotti (mentre Antonio Pennacchi, il fascicomunista, sarebbe già allocato al confino a Ventotene).

Bruno Vespa, insomma, dice cose che suonano inaudite perché nel frattempo, la maionese impazzita dell’antifascismo, ancor più che nel passato oggi s’è incarognita al punto di gettare nell’oblio la monumentale opera di Renzo De Felice (ostracizzato in vita, manco a dirlo), di fare proprio l’assunto di una Chiara Ferragni (che s’è pronunciata in tema di fascismo), e d’intimidire puranco un Paolo Mieli che gli argomenti di Vespa li conosce bene ma anche quelli del conformismo imperante, sempre più agguerrito nel silenziare il più onesto revisionismo.

La lettura del libro, per quel che ci compete, s’è fermata a pagina 220, con un virgolettato di donna Rachele Guidi, la moglie di Mussolini: «Abbiamo avuta tanta fortuna; non può durare; ritiriamoci in tempo; andiamocene a Rocca delle Caminate». Da pagina 221 in poi, invece, comincia un altro libro, con un titolo chiuso nella parentesi «(e come è sopravvissuta alla dittatura del virus)». Ci sono le faccenduole dell’attualità già lette nelle anticipazioni dei giornali. Cose che passano. Mentre quella prima parte, maliziosa vivaddio, leva la sete a chi vuole saperla per davvero la storia. Per come fu. 

POST SCRIPTUM

 Stefano Di Michele, mitico cronista de l’Unità, un grande e bello amico, a chi scrive questo pezzo disse: «A Pietra’, parlamose chiaro; ar tempo del Duce io sarei come minimo podestà de Mentana mentre tu, pe’ quanto puoi essere fascio, saresti a Lipari, al confino!».

Gli faceva eco il terzista Pierluigi Battista, oggi grande firma del Corriere della Sera: «A fascio, ‘ndo te pijo te lascio!».

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