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Ugo Tognazzi durante la scena della "Supercazzola" al vigile in Amici Miei

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Me ne sono accorto, perché l’altra sera in tv davano l’ultimo atto di Amici miei, col Conte Mascetti finito mestamente a rotolarsi in un ospizio. E’ passato il 2020 e – quasi tutti – ci siamo dimenticati dei trent’anni dalla morte del gran padano: l’Ugo Tognazzi da Cremona.

Per Gassman avevamo elevato altari verso il cielo, per Sordi avevano pianto le prefiche, i bambini e i presidenti della Repubblica; per Tognazzi solo qualche replica di film a tarda notte. Eppure, Tognazzi meritava.

I MILLE FLASH DI UGO

Dei giganti della commedia all’italiana era l’unico che, provenendo da una piccola provincia del nord – come la mia, io sono di Verona – era riuscito a conquistare il palcoscenico internazionale specie nella sua seconda vita di attore drammatico e regista.

Dal punto di vista umano, di Tognazzi mi aveva appassionato la determinazione: il nipote di un lattaio che s’era trasformato in venditore di carbone; il figlio di un assicuratore che la madre voleva prete e suonatore di violino; l’impiegato cazzaro del salumificio Negroni che in ufficio imitava il sottofondo dei maiali che venivano sgozzati all’ora di pranzo. Ecco. Tognazzi era l’italiano medio, in grado di recitare sempre parti di «borghesi tentati da imprese più grandi di loro», come diceva Salce, il suo grande scopritore.

I miei flash su di lui sono infiniti: il gerarca Primo Arcovazzi in sidecar col professore antifascista interpretato da Georges Wilson («Buca, buca, buca con acqua»); la chiusura dello show Un, due, tre alla Rai, con Tognazzi che simulò a sua volta una caduta come quella del presidente della Repubblica Gronchi, con Vianello che gli disse «ma chi ti credi di essere?»; il discorso esilarante del ministro, sempre in coppia con Vianello, nel film con Totò, Sua eccellenza si fermò a mangiare, metafora del fascismo; e, ovviamente tutta la poesia del Conte Mascetti in Amici miei. Quando Gastone Moschin, il Melandri nel film, diceva «Che cos’è il genio? Fantasia, intuizione, colpo d’occhio velocità d’esecuzione» si riferiva di certo a Tognazzi.

FACEVA TANTO, ANCHE TROPPO

E poi molte altre scene mi tornano alla mente. Il Tognazzi versione pelosa che fa l’amore con Jane Fonda avvolto dalla plastica in Barbarella di Vadim, per dire. Poi c’era il Tognazzi privato, casinista con le centinaia di donne che aveva amato, padre affettuoso, goliarda inarrivabile, ottimo tennista ed eccellente chef organizzatore di gare culinarie con gli amici, di cui mi parlavano benissimo due grandi amici miei.

Erano Sergio Bonelli, l’editore di fumetti da Tex a Dylan Dog, fraterno sodale di Ugo; e Sandro Parenzo, sceneggiatore, produttore cinematografico e patròn di Telelombardia. Parenzo era quello, per dire, che aveva convinto Ugo, alla fine degli anni 70 a prestarsi alla finta copertina di Paese sera del Male, il cui titolone era «Arrestato Tognazzi, grande vecchio delle Brigate Rosse».

E la foto era proprio di Ugo, in manette, scortato da finti carabinieri. C’era anche, in appoggio, un finto articolo di un finto Raimondo Vianello: «Io l’avevo sempre sospettato». Fu una beffa che scosse l’Italia, rimasta nella storia della satira.

Tognazzi fece davvero tanto, di tutto. Ben 150 film come attore e 5 come regista, senza contare i programmi radiofonici e il teatro (me lo ricordo, ne L’Avaro). Direi che quasi faceva troppo. Operelle come Il petomane (1983) di Pasquale Festa Campanile potevano essere evitate. Ma vabbè. Sospetto che, in questo tripudio oggi di politically correct, molti l’abbiano obliato per l’interpretazione macchiettistica del gay nel Vizietto. Se fosse vivo, Ugo ci farebbe su un film…


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