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Monica Vitti

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Non c’era bisogno di quote rosa al tempo di Monica Vitti, che si chiamava all’anagrafe romana Maria Luisa Ceciarelli, ma poi scelse il nome che aveva letto in un romanzo e il mezzo cognome della mamma (Vittiglia quello vero). Non c’era bisogno perché lei, che se n’è andata a novant’anni ma da tanto (da troppo) tempo era uscita dalla vita e dallo schermo, colpita da una implacabile malattia degenerativa, simile all’Alzheimer che tutto e tutti travolge. La assalì e la portò con sé più di vent’ani fa.

Come era bella la Vitti e come era brava! Capace di passare dall’incomunicabilità e l’alienazione in cui sembrava averla recintata l’amore d’altri tempi, Michelangelo Antonioni, alla comunicazione più difficile, quella dell’ironia e della risata, “ma ‘ndo vai, se la banana non ce l’hai”. Capace di tener testa e testo a Shakespeare e ad Alberto Sordi. Di regnare, signora incontrastata sulla “commedia all’italiana”, nella quale si confrontavano gli uomini più significativi del nostro cinema, Albertone e Tognazzi, Gassman e Manfredi, ma l’unica donna era lei, la Vitti.

In un universo maschile per definizione e tradizione, l’universo dei comici (far ridere è assai più difficile che tirare giù le lacrime), Monica, bionda con quei capelli di un disordinatissimo ordine, si muoveva all’altezza dei protagonisti e talvolta un gradino più su: io so che tu sai che io so.

Alberto Sordi e Monica Vitti in “Polvere di Stelle”

Era morta già una volta, nel 1988, quando una delle gaffes più clamorose del giornalismo al mondo (e il giornale era appunto il super autorevole “Le Monde”: chi è senza peccato scagli la prima pietra) ne annunciò la scomparsa; la prese con ironia, quasi pari a quella di Mark Twain che leggendo un pari infortunio su di un giornale disse semplicemente “la notizia mi sembra esagerata”.

Quel “Vitti” si è prestato ad ogni ruolo e ad ogni gioco: “La Vitti eternelle”, come la vita eterna, che è l’annuncio della sua scomparsa dato da “Libération”, il riferimento della cultura francese; “Vitti d’arte, Vitti d’amore”, “La Dolce Vitti”. Titoli di mostre e documentari che le sono stati dedicati a Roma, la sua Roma (era laziale di tifo), e premi, tanti premi, una montagna di David di Donatello e di Nastri d’Argento, di Globi e di quant’altri, il Leone di Venezia e l’Orso di Berlino, per La ragazza con la pistola che in quella veste rivelò agli spettatori, che allora c’erano, che L’avventura era alle spalle, come La notte e L’eclissi, come il Deserto rosso e quel mondo sofisticato e snob raccontato da Antonioni e che talvolta lasciava straniati in platea.

Ha fatto teatro, cinema e televisione Monica Vitti. Raccontano che sulla scena e sul set avesse un “caratterino”. Aveva, in realtà il dono della magia. Che fosse La Tosca (con Gigi Proietti), o Ninì Torabusciò, che recitasse per Luis Bunuel o Joseph Losey, che ballasse Il tango della gelosia per Steno, che parlasse con la sua voce roca e sensuale, che indossasse le sette sottane con cui si riparava dal freddo quando era ancora bambina, che raccontasse in un libro che “Il letto è una rosa”. Che fosse nel picchetto d’onore ai funerali tra il popolo di Enrico Berlinguer o dentro il piccolo schermo a recitare sotto la guida di Eduardo.

Era bella, era brava Monica Vitti. È indimenticabile, Assunta Patanè. “Scoprire di far ridere è come scoprire di essere la figlia del re” disse una volta. Ma lei non era la figlia del re: era il re.


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