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Ennio Morricone in una scena di "Ennio"

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ENNIO, il documentario di Giuseppe Tornatore dedicato al leggendario compositore Morricone, oltre ad aver di gran lunga superato il milione e mezzo di euro al botteghino, è uno dei titoli più visti di queste settimane, godendo di un passaparola positivo unanime.

Senza fine, il docufilm diretto da Elisa Fuksas, non ha – a dire il vero – conquistato il box-office (eccetto le numerose serate evento in compagnia della protagonista Ornella Vanoni) ma ha decretato un modo di fare documentario che segnerà un passaggio, almeno in Italia, tra un prima e un dopo, in seno al linguaggio. Quello di Elisa Fuksas, figlia del celebre archistar, è un lavoro di regia dove una diva non si racconta ma interpreta sé stessa, a differenza di Ennio narrato con una macchina da presa piazzata davanti agli interlocutori o tutto affidato alle immagini di repertorio come in Luigi Proietti detto Gigi.

Il documentario si è definitivamente conquistato il suo spazio, vive un momento felice da cui non si può più prescindere. Il pubblico apprezza molto, non è un “ripiego”, ma racconto della realtà.

È giornalismo con una veste cinematografica. Con le pause, la fotografia e la scenografia che un bell’articolo non potrà mai avere. Il documentario è una storia, un racconto, una biografia di un uomo normale assurto a supereroe, da ammirare, da emulare, da osservare, nel quale proiettarsi, goderne le gesta, riconoscersi. Di fronte ad un progetto cinematografico debole, il documentario sul personaggio più o meno famoso gode di una forza comunicativa ineguagliabile. Forse ci si sta accorgendo, con umiltà, che il pubblico ha voglia (anche in sala) di conoscere grandi storie e grandi personaggi, oppure piccole storie con grandi personaggi, o perfino piccoli personaggi alle prese con grandi storie o con la Storia.

E laddove non riesce la fiction, il racconto del reale è un alleato credibile e incredibile. Anche al cinema, soprattutto di questi tempi.


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