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Questo non è un libro nato per una rilassante lettura sotto l’ombrellone in riva al mare. È una chiamata alle armi per una nuova classe dirigente che si impegni in una battaglia meridionalista. Per cogliere l’occasione – forse l’ultima – di rendere l’unità della Repubblica voluta dalla Costituzione del 1948 una realtà, e non un miraggio che sfuma in un orizzonte sempre più lontano.

La riflessione dell’Autore assume i dati, certificati da fonti molteplici, di un divario tra Nord e Sud che ha radici nella storia e che ha visto in anni recenti le diseguaglianze accrescersi di molto. La novità della lettura offerta non è tanto nelle cifre del divario – già in larga parte note – quanto nella considerazione della dimensione della realtà meridionale. L’Autore osserva che il Sud, se fosse separato dal resto dell’Italia, sarebbe per popolazione il sesto paese in Europa. Ben dodici paesi europei sono più piccoli della sola Campania, e nove della Sicilia. Una dimensione territoriale che con ogni evidenza non regge soltanto analisi quantitative. che peraltro l’Autore svolge – ma si presenta anche come dato eminentemente politico.

È proprio la dimensione territoriale e il suo rilievo politico che spiegano, come sottolinea l’Autore, il conferimento all’Italia delle risorse europee in misura superiore a quella riconosciuta a qualsiasi altro paese. E che – riferite ai tre parametri di popolazione, tasso di disoccupazione e reddito pro-capite – andrebbero ben oltre il 40% che formalmente viene riconosciuto al Mezzogiorno secondo un mantra governativo tante volte ribadito, e per la verità mai davvero e pienamente dimostrato. Al contrario, si sono moltiplicati i dubbi, anche fortemente argomentati, sulla reale distribuzione territoriale dei fondi in questione.

Come e perché è accaduto e tuttora accade che le risorse pubbliche in vario modo disponibili fossero assegnate in prevalenza al Nord, senza alcuna considerazione di un obiettivo che pure dovrebbe essere da tutti condiviso e che è persino prescritto dalla Costituzione, come l’unità del paese? Paradossalmente, lo vediamo oggi assegnato come priorità dall’Europa. Perché la politica italiana è così restia ad assumerlo?

Sono in campo due letture contrapposte del ritardo del Sud e del divario strutturale rispetto al Nord, che segnano ad un tempo il pensiero economico e quello istituzionale. Per una il divario è dovuto non a una insufficiente dotazione di risorse pubbliche, ma alla incapacità delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni meridionali di spendere per inefficienza, clientelismo, o persino inquinamenti malavitosi. Riversare maggiori risorse in una siffatta realtà può solo bruciarle, togliendole alla parte di paese – la locomotiva del nord – che ne può davvero trarre frutto, rimanendo competitiva con i paesi europei più forti e sul piano globale. Attaccare il divario Nord-Sud allora non è un bene per il paese, ma reca danno. Bisogna invece lasciare il Sud al suo destino, al più garantendone un minimo livello di sopravvivenza. 

L’altra lettura dice ovviamente il contrario: la comparativa inefficienza delle strutture pubbliche meridionali è dovuta alla insufficiente dotazione di risorse pubbliche, che rende impossibile un funzionamento adeguato rispetto alle esigenze. Ridurre il divario Nord-Sud attivando una seconda locomotiva nel Mezzogiorno è la sola politica che possa portare l’Italia tutta a un più alto livello di competitività. Questo nell’interesse non solo del Mezzogiorno ma dell’intero paese, diversamente condannato a un inevitabile declino.

L’Autore sceglie nettamente la seconda lettura, che ha un preciso riscontro nella realtà. Chi studia il Mezzogiorno non da oggi sa che l’attenzione per la locomotiva del Nord ha condotto il Paese alla stagnazione. Nel rapporto Svimez 2021 una tabella comparativa certifica che nella classifica territoriale europea le nostre presunte eccellenze – ad esempio, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Toscana, Liguria – sono negli ultimi venti anni in caduta libera e perdono decine di posizioni rispetto all’inizio del secolo.  È esattamente l’esito della politica italiana di investimento sulla locomotiva del Nord. Se si vuole far crescere il Paese a ritmi paragonabili a quelli dei partner europei più forti bisogna rivitalizzare il Mezzogiorno. Un secondo motore oggi reso ancor più necessario dalle conseguenze geo-politiche della guerra in Ucraina, e dal nuovo centralismo che potenzialmente assume una presenza europea in chiave euro-mediterranea.

È uno scenario cui l’Autore presta una giusta attenzione. Ma come realizzarlo? È cruciale un cambio di classe dirigente, al Sud come al Nord. L’Autore sottolinea la bulimia economico-sociale della classe dirigente del Nord, volta a fagocitare la maggior quota possibile di risorse pubbliche senza alcuna attenzione per il divario Nord-Sud e i diritti dimidiati in tanta parte del Paese. Ma sottolinea al tempo stesso la subalterna connivente complicità della classe dirigente meridionale, estrattiva e attenta a difendere clientele e familismi, senza tenere in alcun conto l’interesse dei territori da essa rappresentati. 

Una riflessione su questo punto va fatta sul Movimento 5 Stelle, cui l’Autore guarda essenzialmente come una occasione perduta. Indubbiamente ha ragione quando vede nel risultato elettorale del 2018 aprirsi uno scenario possibile di profondo cambiamento per il Mezzogiorno. Avrebbe potuto essere l’avvio del formarsi di una nuova classe dirigente per il Sud, volta a sostituire quella estrattiva, subalterna e connivente con il Nord, incapace di andare oltre la pratica della gestione clientelare e familistica del potere. L’occasione quindi per il Mezzogiorno di conquistare una pari dignità sul palcoscenico della politica nazionale. Ma la promessa non è stata mantenuta, “per una carenza di preparazione e di capitale umano adeguato oltre che per una deriva populista che ha prevalso nelle loro fila” (pag.21). 

Una considerazione sostanzialmente da condividere. Anche un osservatore benevolmente attento all’ascesa e alla progressiva crescita dei consensi del Movimento nei turni elettorali del 2013 e 2018 ne vede i limiti. Soprattutto con il voto del 4 marzo 2018 il Movimento ha la possibilità di diventare soggetto egemone nella politica italiana e struttura portante nell’architettura istituzionale. Con quel voto, però il Movimento segna il suo punto più alto, e inizia la caduta. Ha dato quel che poteva dare, e l’evoluzione successiva avrebbe richiesto un cambiamento profondo. Il movimento del “vaffa” doveva tramutarsi in soggetto di governo capace di parlare al Paese tutto, e non solo a questo o quel nucleo di protesta militante. Una impresa certo difficile, ma non impossibile. Sarebbe stato, però, a tal fine necessario un vero gruppo dirigente e una solida struttura, capaci di elaborare un progetto organico e di tradurlo in azione politica e di governo.

La mancanza di queste condizioni ha segnato la storia del Movimento5S nella legislatura che ora si chiude, e ne ha conclusivamente prodotto l’implosione. La stessa mancanza ha fatto sì che il Movimento non si sia mai mostrato consapevole di poter essere protagonista di un nuovo meridionalismo, imperniato sul dato indiscutibile di avere una cassaforte elettorale nel Mezzogiorno, e di disporre delle possibilità offerte dai poteri di governo. Inconsapevolezza provata dal fatto che tre esecutivi di diverso colore – Conte I, Conte II e Draghi – hanno assunto come priorità il tema dell’autonomia differenziata portandolo alla soglia del Consiglio di ministri senza che M5S avviasse mai una seria riflessione volta a saggiarne la compatibilità reale con l’unità della Repubblica e specificamente con gli interessi del Mezzogiorno. La necessità che il Sud richiedesse sul punto valutazioni attente e tutela non è mai veramente entrata nella riflessione politica del Movimento. Al più, si rilevano sporadiche esternazioni di questo o quell’esponente, e nulla di più. Pur essendo questione di ben maggiore portata rispetto a bandiere che il Movimento ha deciso di volta in volta di piantare. 

Nel voto del 25 settembre 2022 il Movimento non ritornerà ai fasti del 2018. Le prospettive sono buie, dopo le carenze di azione politica nella legislatura, la scissione guidata da Di Maio, la mancata fiducia al Governo Draghi sotto la regia del capo politico Conte. Con la legge elettorale vigente e complice il taglio degli eletti fortemente voluto proprio da M5S, il Movimento ha visto ridotto il proprio consenso elettorale a poco meno del 20%, portando in Parlamento una sparuta pattuglia di poche decine e rimanendo sostanzialmente marginale o del tutto ininfluente nella politica nazionale. Quel che qui conta è che viene meno la prospettiva di un protagonismo del Movimento utile a una nuova stagione meridionalista.

Dove volgersi allora? L’assunto dell’Autore è che ci sia una maggioranza silenziosa, sia al Sud che al Nord, disponibile per un radicale cambiamento delle politiche seguite finora. Una maggioranza resa silenziosa dalla mancanza di una offerta politica adeguata. Si cita come supporto l’Unione europea, di cui si assume l’interesse a valorizzare il ruolo dell’Italia in una prospettiva euromediterranea, in specie dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ma è cruciale un cambiamento radicale della classe dirigente del Sud.

Come? L’Autore individua un punto debole nel fatto che le forze di rinnovamento meridionali, che pure possono contare su una élite intellettuale, non hanno un seguito elettorale, e non sono state in grado di produrre un fenomeno politico come quello della Lega Nord. Mancano della struttura organizzativa necessaria per tradurre l’analisi in consenso. L’assunto del libro è che l’appello “ai liberi e forti” possa superare tale mancanza.

Una scommessa non facile. Nemmeno è facile la parte che riguarda la classe dirigente del Nord. È significativo che con ben quattro governi di diverso colore – Gentiloni, gialloverde, giallorosso, e infine Draghi – sia stata costante la spinta per avviare il processo attuativo dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione sull’autonomia differenziata. Il fatto che sin dall’inizio la spinta sia venuta non solo da regioni a trazione leghista, come Veneto e Lombardia, ma da una storica roccaforte della sinistra, come l’Emilia-Romagna, contribuisce a spiegare in ampia misura come anche in soggetti politici che dovrebbero essere attenti all’eguaglianza e ai diritti il divario Nord-Sud non trovi l’attenzione che meriterebbe. Lo stesso vale per il sindacato. Forse il termine connivenza va oltre il segno. Ma se non di connivenza, di sicuro è giusto parlare di tolleranza e ambiguità. Mentre è significativo che subito dopo la caduta del governo Draghi la pressione verso l’autonomia sia immediatamente ripresa, e che è stata oggetto di campagna elettorale. Lo dice in chiaro Zaia, presidente del Veneto, che promette battaglia già all’apertura dei lavori del nuovo Parlamento. 

Conclusivamente la chiave di lettura fondamentale del libro si può forse individuare in un assunto: che le classi dirigenti del Nord e del Sud devono cercare un interesse che le accomuni. Un interesse che può essere volto allo stare insieme, per ridare al Paese unito la grandezza e la centralità che ha in parte perduto, oppure al separarsi, per dare a ciascuna delle due parti la libertà di perseguire i propri obiettivi in una condizione di parità nella competizione europea e globale, in specie senza alcuna indebita subalternità del Mezzogiorno.

Se non si raggiunge una sinergia positiva “a qualcuno potrebbe venire in mente che un collegamento diretto con l’Unione potrebbe essere vantaggioso per un Sud, che potrebbe trattare le condizioni, di volta in volta, direttamente, sia con gli organismi europei che con quelli internazionali” (pag 26).  Le parole dell’Autore ci riportano a uno scenario di separazione consensuale come quella del 1993 in Cecoslovacchia, a seguito di un voto nel Parlamento ancora formalmente unitario: il “divorzio di velluto”.

Sono potenziali sviluppi che non si prevengono con un richiamo puramente formale alla Repubblica “una e indivisibile” di cui all’art. 5 della Costituzione.  In una prospettiva di medio o lungo periodo si mostra insostenibile – comunque, e al di là di qualsiasi formula – la continuazione di una politica che vede il Sud stretto in una marginalità crescente, e destinato a una desertificazione economica e sociale. Uno scenario non solo incostituzionale, ma soprattutto politicamente ed eticamente inaccettabile. 


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