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SECONDO l’ultima rilevazione Eurostat, i giovani italiani hanno compiuto piccoli passi in avanti e abbassato l’età media in cui lasciare il nido: siamo infatti passati da poco più di 30 anni a 29,9. I risultati registrano perciò una leggera flessione, ma siamo ancora lontani da Paesi come la Finlandia e la Svezia in cui si va via da casa tra il 19 e 21 anni. La media UE rimane a 26,5 anni (senza riuscire ancora a tornare ai livelli pre-pandemia che si aggiravano su 26,2), ma gli italiani scendono quest’anno sotto la soglia – quasi “psicologica” – dei 30 anni. A seguire troviamo i giovani di Grecia, Bulgaria, Slovacchia, Portogallo e Croazia. Questo “traguardo” sembrava irraggiungibile dal 2014 ed è indubbio che l’emergenza sanitaria abbia peggiorato una situazione già precaria e al tempo stesso stagnante che vede i giovani italiani più poveri e con minori opportunità rispetto ad altre fasce d’età.

Ricordiamo tutti l’infelice espressione adottata nel 2007 dall’allora Ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, che definì i giovani “bamboccioni”; altrettanto sventurato fu il giudizio della Ministra del Lavoro Elsa Fornero che, nel 2012, accusò i giovani di essere “choosy”, cioè non in grado di accontentarsi di posti di lavoro che erano ragionevolmente in grado di ottenere.

Mammoni o arrivisti? Dati alla mano, possiamo affermare che non siano né l’una né l’altra cosa: non è imputabile alle giovani generazioni la difficoltà ad allontanarsi dal nido, bensì all’assenza di politiche giovanili in grado di apportare il benché minimo risultato e al ricorso a misure emergenziali che lasciano il tempo che trovano. Per comprendere la situazione attuale, può essere utile confrontare i numeri degli ultimi anni con quelli del 1983: allora, la quota di giovani tra i 18 e i 34 anni nubili o celibi che vivevano ancora i genitori era del 49%, che è salita al 60,2% e si attestata al 58,6% nel 2009. Secondo l’ultimo rapporto Istat, i giovani che vivono oggi in casa con i genitori sono 7 milioni, pari al 67,6% del totale. Nell’arco di 50 anni, insomma, siamo passati dalla metà ai due terzi.

La pandemia ha colpito soprattutto le fasce più deboli: sono stati per lo più i giovani, le donne e gli stranieri a perdere il lavoro a causa delle chiusure e della crisi. Come spesso accade, i più precari diventano i più licenziabili. In molti hanno ritrovato il lavoro, ma si tratta ancora una volta di occupazioni precarie che non incoraggiano ad abbandonare il tetto familiare: quattro giovani su dieci fino a 34 anni sono lavoratori non standard, mentre sono 2 su 10 nella fascia 35-49 e 1 su 10 tra gli over 50. A questi dati, bisogna aggiungere quelli sui NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, cui negli ultimi anni si sono aggiungi gli studenti esclusi dalla didattica a distanza, e quelli sulla povertà assoluta, passata dal 3 all’11% nella fascia dai 18 ai 34 anni.

Le testimonianze che abbiamo raccolto confermano questi dati. Andrea ha 30 anni, abita a Vibo Valentia e vive con i suoi genitori: «Come posso anche solo pensare di andare a vivere da solo? – confessa – Le sole opportunità che ho avuto sinora sono state precarie, a tempo determinato o part time. In queste condizioni è impossibile fare progetti». Annalisa di anni ne ha 35, abita in provincia di Taranto ed è andata a vivere da sola a 27 anni: «Di rientro da un’esperienza all’estero, mi è stato offerto un lavoro proprio nel mio campo. Mi sembrava un sogno! E forse lo è stato – sospira, ndc – perché da allora sono riuscita a costruire la mia indipendenza su basi più o meno solide e sono andata a vivere per conto mio, ma so di essere molto fortunata rispetto ai miei coetanei».

L’indipendenza, com’è facile intuire, è strettamente legata all’occupazione e a un’autonomia che i giovani italiani faticano ancora a raggiungere. Eurostat stessa ha correlato i dati sull’età media in cui si va via da casa con l’occupazione giovanile e i risultati non sorprendono: nella maggior parte dei Paesi in cui i giovani vanno via da casa intorno ai 29 anni (oppure dopo i 30) il tasso di partecipazione al lavoro non supera il 50%. In Svezia, invece, i giovani vanno via da casa a 19 anni e il tasso di occupazione sfiora il 70%. Manca poco meno di un mese alle prossime elezioni politiche e i dati, seppur meno allarmanti rispetto agli anni passati, indicano la forte necessità di interventi strutturali in favore dei giovani, che non si limitino ai proclami elettorali. Il prossimo governo saprà rispondere al grido d’aiuto lanciato dai più giovani?


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