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«LA SFIDA non è quante donne siedono in un consiglio di amministrazione, la sfida è quando avremo il primo amministratore delegato donna di una società partecipata statale. Questo è uno degli obiettivi che mi do». Da prima donna presidente del Consiglio dei ministri dal Secondo dopoguerra, sorprende fino ad un certo punto che una tra le più alte cariche della Repubblica, abbia voluto dichiarare nel corso della cerimonia di presentazione del nuovo allestimento della Sala delle Donne alla Camera dei Deputati, la sua intenzione di nominare una donna al vertice di una delle società della galassia delle company pubbliche.

«Credo che il vero valore di una competizione ad alto livello – ha spiegato Meloni – stia nella qualità prima che nella quantità dei ruoli. Mi piacerebbe, e lo dico alla vigilia di una scelta importante che il Governo deve fare, immaginare che anche nelle grandi società partecipate statali possa esserci un amministratore delegato donna perché non c’è mai stato. Credo che questa sia la grande sfida della parità».

Un accento importante quello posto dalla premier, che lascia immaginare la possibilità di aggiungere, durante la legislatura, ulteriori tessere al mosaico delle politiche di genere in una società ed un’economia ancora fortemente caratterizzate dal maschilismo promuovendo un riequilibrio in grado di porre su piede di parità uomini e donne nel nostro Paese. Dichiarazioni e propositi come quelli manifestati dal presidente del Consiglio possono dunque dischiudere prospettive per un’ulteriore ascesa delle donne nell’ambito dei posti chiave di società a capitale pubblico o privato capace di favorire un cambio di paradigma nelle politiche di genere.

Studio Robeco Audrey Kaplan, Portfolio Manager Global Gender Equality Equities di Robeco (società attiva negli investimenti finanziari fondata a Rotterdam nel 1929 con un patrimonio gestito di 173 miliardi di euro, attività conformi all’Esg per 164 miliardi di euro e 1028 dipendenti in sedici sedi sparse per il mondo) sostiene che il miglioramento delle politiche di genere favorisce l’incremento della ricchezza delle nazioni. Egli lo vede dalla prospettiva delle imprese. Secondo l’analista solo quelle disposte ad abbracciare con convinzione la diversità di genere ed a inserire molte più donne nella C-suite, ovvero l’insieme dei dirigenti più importanti di un’azienda, possono ottenere notevoli vantaggi. Più in generale, dare più opportunità alle donne per lavorare non solo supporta la loro emancipazione ma colpisce fortemente anche l’economia mondiale. Sono molteplici le istituzioni ad affermarlo: per l’Harvard Business Review (2022) un equilibrio di genere permetterebbe di raggiungere 28 mila miliardi di dollari del Pil mondiale entro il 2025; per l’European Institute for Gender Equality (2022) una maggiore attenzione alla parità di genere porterebbe un incremento, a livello globale, di dieci milioni di nuovi posti di lavoro e una crescita economica più sostenibile stimata al 75 per cento; secondo l’Istituto Europeo per la parità di genere, una maggiore gender equality porterebbe entro il 2050 a un aumento del Pil pro capite dell’Unione Europea dal 6,1 per cento al 9,6 per cento; e il Fondo Monetario Internazionale aggiunge che avvalersi delle donne nelle posizioni strategiche permetterebbe all’economia di crescere del 35 per cento a livello globale.

Alla fine dello scorso anno il Parlamento europeo ha imposto a tutte le società quotate nelle Borse valori degli Stati dell’Unione Europea di avere un minimo del 40 per cento di donne nei loro consigli di amministrazione o almeno un terzo di donne come amministratori entro il 2026. Le società che non si adeguano devono “fare disclosure e spiegare” come il processo di selezione sia effettivamente obiettivo e non discriminatorio. Se le aziende non raggiungessero gli obiettivi e non fornissero sufficienti spiegazioni, potrebbero incorrere in multe e nel rifiuto dei candidati eletti al consiglio di amministrazione. Sebbene in alcuni Stati membri le quote siano già in vigore, la nuova legge rappresenta il primo requisito unificato e vincolante nella storia dell’Unione Europea.

Disuguaglianza di genere: ingiusta e non ottimale

Secondo dati di Eurostat diffusi a marzo 2022, il tasso di occupazione delle donne in età lavorativa nell’Ue è del 66 per cento e il 60 per cento dei nuovi laureati sono donne. Tuttavia, nonostante le straordinarie credenziali e la presenza nella forza lavoro, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, a conclusione di un’indagine condotta a giugno 2022 sulle maggiori società quotate nelle Borse, ha confermato che la quota di donne nei consigli di amministrazione di società quotate in borsa nell’Unione Europea è del 31,5 per cento. In alcuni Stati membri questo dato scende ad una singola cifra. La legge sottolinea l’impegno di Bruxelles per il “valore fondamentale” della parità tra uomini e donne. Ma non è solo una questione di valore sociale: è in gioco anche un significativo valore economico. Sempre secondo l’Istituto europeo per le politiche di genere, il miglioramento dell’uguaglianza di genere aggiungerebbe fino al 9,6% al Prodotto interno lordo pro capite dell’Ue (3.000 miliardi di euro in valori assoluti) entro il 2050 – contribuendo al Pil pro capite anche più delle riforme del mercato del lavoro e dell’istruzione (come evidenzia la figura pubblicata nella pagina).

Quote nei consigli di amministrazione: una leva potente

Le quote sono state una leva potente per promuovere l’uguaglianza di genere e migliorare la diversità, almeno nei consigli di amministrazione. Le società dei Paesi dell’Ue con una qualche forma di mandato di genere hanno una maggiore rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione rispetto a quelle che ne sono prive (30,4% contro 16,6%).

Inoltre, le politiche più severe con sanzioni in caso di non conformità funzionano meglio delle misure morbide e su base volontaria. Norvegia, Francia e Italia – Paesi che combinano quote più elevate con sanzioni vincolanti – possono vantare quote di donne nei consigli di amministrazione rispettivamente del 45%, 44% e 36% (dal 4%, 7% e 10%). L’esperienza dell’Ue trova eco nei mercati sviluppati a livello globale: senza quote, i consigli di amministrazione sono in gran parte off-limits per le donne.

Statistiche sconfortanti dalla C-suite

I legislatori dell’Ue sperano che dare alle donne una voce unitaria ai vertici dovrebbe anche ridurre le disuguaglianze in termini di retribuzione, compensi e avanzamento per le donne al di fuori dei consigli di amministrazione. Ma le ricerche condotte finora rivelano che, sebbene le quote sensibilizzino l’opinione pubblica e migliorino la gestione e l’impegno dei consigli di amministrazione, fanno ben poco per incrementare l’uguaglianza di genere al di fuori dei consigli di amministrazione. In Norvegia, il primo Paese a varare una legislazione nazionale di ampio respiro, la quota femminile nei consigli di amministrazione è balzata quasi oltre il 40%; tuttavia, le percentuali di dirigenti in alti profili e le retribuzioni sono rimasti invariati.

L’Italia migliora ma il resta il divario

In Italia una donna su due non lavora, guadagna un euro in meno rispetto un uomo e ricopre solo il 32% delle posizioni di comando si legge nella ricerca di Rome Business School, “Gender gap, diversità e inclusione nel lavoro in Italia e nel mondo. L’esperienza di Medici Senza Frontiere” sviluppata da Maria Luisa Garofalo, Talent Acquisition & Development Coordinator Medici Senza Frontiere Italia e Valerio Mancini, direttore del Centro di Ricerca di Rbs. Anche se oggi per la prima volta nella nostra storia c’è una donna come presidente del consiglio, della Cassazione e alla guida di partiti storici come il Pd, l’Italia è ancora indietro rispetto agli altri Paesi europei per l’occupabilità femminile (50,2% contro una media europea del 62,7%). Gli autori affermano che «bisogna attuare politiche di sostegno alla leadership femminile, parità retributiva, flessibilità lavorativa, sostegno alla maternità, smartworking, garantire il work-life balance e coinvolgerle attivamente nei processi decisionali senza discriminazione né segregazione», facendo uso in primis dei 40 milioni stanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per l’occupazione femminile.


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