X
<
>

Il Soccorso alpino sul luogo della tragedia

Condividi:
3 minuti per la lettura

VERBANIA – Ammissioni sì, ma solo da chi l’aveva già rese prima di essere fermato, ossia Gabriele Tadini, caposervizio dell’impianto. Per il resto, un duro rimpallo di responsabilità che ha dato l’idea quasi di un tutti contro tutti.

Versioni differenti e contrastanti che sono state portate davanti al gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, chiamata a decidere, dopo quasi 8 ore di interrogatori, sulla richiesta di convalida del fermo e di custodia in carcere per Tadini e per gli altri due indagati, il gestore della funivia del Mottarone, Luigi Nerini, e il direttore di esercizio, Enrico Perocchio. Tutti in carcere con l’accusa di omissione dolosa di cautele aggravata dal disastro, omicidio colposo per le morti di 14 viaggiatori e lesioni colpose per il ferimento del bimbo di 5 anni.

«Ho messo io il ceppo blocca freno e così avevo fatto altre volte, perché negli ultimi 40 giorni c’era quel problema al sistema frenante», ha ribadito Tadini che già martedì al procuratore Olimpia Bossi e al pm Laura Carrera aveva spiegato di aver deciso lui, anche quel 23 maggio, di mantenere i forchettoni sulle ganasce per disattivare il freno d’emergenza. E lo ha fatto, come quasi «abitualmente» nell’ultimo mese, per evitare blocchi della cabinovia dovuti alle anomalie che si registravano.

Quando, però, la fune traente si è schiantata, per cause ancora da chiarire, a quel punto la cabina numero 3 non è stata agganciata dal freno sul cavo portante ed è volata via.

«Non sono un delinquente, non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune potesse spezzarsi», ha detto il tecnico quasi in lacrime (“porterò per sempre questo peso”), assistito dal legale Marcello Perillo che ha chiesto per lui i domiciliari.

Ma, soprattutto, pure oggi Tadini avrebbe messo a verbale che quella «scelta» fu «condivisa» con Nerini e Perocchio. Ha infatti dichiarato, si legge negli atti, che il titolare delle Ferrovie del Mottarone era «del tutto consapevole dell’abituale ricorso ai “forchettoni”», così come Perocchio, e anzi «lo sapevano tutti».

Il primo a negare su tutta la linea davanti al giudice è stato però proprio Perocchio (difeso dall’avvocato Andrea Da Prato), dipendente della Leitner, che si occupa della manutenzione: «Non sapevo dell’uso dei forchettoni, non ne ero consapevole». E ancora: «Non salirei mai su una funivia con ganasce, quella di usare le forchette è stata una scelta scellerata di Tadini». Per il suo legale c’è persino la testimonianza di un tecnico esterno dell’impianto che lo sconfessa, perché nega che il caposervizio abbia mai riferito «all’ingegnere Perocchio» della «decisione».

Quando è toccato a Nerini, difeso dal legale Pasquale Pantano, la responsabilità di ciò che è accaduto è stata spostata sugli altri due. «La sicurezza non è affare dell’esercente», è stata la sua linea difensiva. «Per legge erano Tadini e Perocchio a doversene occupare – ha aggiunto – io mi devo occupare degli affari della società e non aveva alcun interesse a non riparare la funivia». Non aveva il potere di fermare l’impianto, sapeva, stando alla sua versione, che c’era un malfunzionamento al sistema frenante e che era stata «chiamata per due volte una ditta», ma non che venissero usati i blocchi alle ganasce. «Smettetela di dire che ha risparmiato sulla sicurezza», ha affermato il difensore.

Dalle carte risulta che Tadini, indagato anche per falso, avrebbe redatto due rapporti, sia il 23 maggio che il giorno prima, parlando di esiti «positivi» dei controlli, quando invece sentiva già da tempo «rumori». Da un lato, c’era un impianto frenante che non funzionava e che venne bloccato coi turisti a bordo «in spregio alla sicurezza», come scritto dai pm, e dall’altro un cavo traente probabilmente già debole che non ha retto più nel cosiddetto punto della “testa fusa”, dove la fune si aggancia al carrello della cabina. Quanto siano collegati questi fatti è uno dei punti fondamentali su cui dovrà fare chiarezza l’indagine.


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE