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Le imprese si riducono, ma crescono addetti e valore aggiunto. E, soprattutto, piccolo non è più bello. Inoltre sale la propensione a delocalizzare, un fenomeno che riguarda soprattutto le imprese del Nord Ovest e di dimensioni maggiori. Sono alcuni degli elementi che emergono dai primi risultati del Censimento permanente delle imprese dell’Istat.

Positiva la crescita del valore aggiunto nella mobilità sostenibile e nell’energia e ambiente. Ma c’è un’altra sorpresa che riguarda lo sviluppo della specializzazione intelligente, uno strumento promosso dall’Unione europea finalizzato a identificare, da parte dei Paesi e delle Regioni, le azioni per favorire investimenti in ricerca e innovazione in alcune aree.

AGROALIMENTARE SUPERSTAR

Spicca la maggior concentrazione di imprese (13,8%) nelle aree dell’Agroalimentare, a seguire Salute (5,8%), Energia e Ambiente (5,1%). Un impulso fondamentale alla ricerca scientifica è dato da Aerospazio, Smart Community e Chimica verde.
Ed è sempre l’agroalimentare che è caratterizzato da una variazione positiva su queste aree, un dato importante perché «le aree di specializzazione intelligente – dice l’Istat – rappresentano ecosistemi industriali che identificano ambiti di produzione fondamentali del tessuto produttivo italiano. Sono state individuate con l’obiettivo di portare in attuazione il finanziamento dei fondi di coesione europei in ricerca e sviluppo e innovazione».

Ancora una volta, dunque, l’agroalimentare svetta, così come nella partecipazione alle filiere. Un settore trainante che non delocalizza e che è sempre più appetibile per i grandi gruppi. Una situazione che allarma i produttori e che si può affrontare – come ha detto il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini – trasformando l’Ismea, l’istituto che fa capo al ministero dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, in una Cassa Depositi e prestiti per salvaguardare il ricco patrimonio di brand agroalimentari che il mondo ci invidia.

La fotografia del sistema produttivo nazionale scattata dall’Istituto di statistica segnala che tra il 2018 e il 2021 il numero delle imprese è calato dell’1,2%, ma contestualmente c’è stata una crescita del 3,8% degli addetti (480mila unità) e dell’11,6% del valore aggiunto. Nel periodo esaminato si è contratto il numero delle piccole imprese con perdita di lavoratori.

Al contrario, si rafforzano gli addetti delle medie e grandi imprese, e sono soprattutto queste ultime a trainare il lavoro con il 23,2% del totale degli occupati, portando così a un bilancio positivo di 89mila unità rispetto al 2018 (+13,9%). Perdono colpi alcuni comparti tradizionali del Made in Italy, dal tessile all’industria del legno e dei mobili.

GOVERNANCE E RICAMBIO

Cambia anche la governance, con sempre più unità produttive controllate da una persona o da una famiglia. In tale situazione nel 2022 erano 820mila imprese, l’80,9% di quelle con almeno 3 addetti.

Un altro elemento è l’andamento lento del ricambio generazionale. Tra il 2016 e 2022 poco meno di un’impresa su 10 ha affrontato almeno un passaggio. Per le medie e grandi si sale al 17,8% e 18,9%. Quasi l’8% delle aziende conta di farlo entro il 2025.

Significativi anche gli obiettivi che guidano le strategie imprenditoriali. Al top la difesa della posizione competitiva, poi l’aumento dell’attività in Italia, l’ampliamento della gamma dei servizi, degli investimenti in nuove tecnologie, l’attivazione di misure ambientali, l’accesso a nuovi segmenti di mercato, la collaborazione con altre imprese, il rafforzamento dell’attività all’estero.

Un fattore che ostacola il sistema imprenditoriale è la difficoltà a reperire figure professionali con le competenze richieste, una carenza denunciata in particolar modo nel Nord Est. Qualità e competenza del personale sono infatti considerate basilari per la competitività. Ma un freno è individuato anche negli oneri amministrativi e burocratici e nella carenza di risorse finanziarie.

Un’altra caratteristica del sistema produttivo nazionale è il ricorso all’autofinanziamento, che nel 2022 è diventato lo strumento finanziario più diffuso tra le aziende con almeno 3 addetti: ha interessato l’80,3% delle unità in crescita rispetto al 2011 (60,4%). Una scelta spinta anche dagli aumenti dei tassi decisi dalla Bce, che hanno reso più caro l’accesso ai finanziamenti bancari. La richiesta del credito per le piccole imprese è finalizzata a coprire le spese ordinarie, mentre le grandi usano le risorse per investire e ampliare la capacità produttiva.

Nel 2022 il 24% delle imprese ha fatto ricorso a prestiti presso banche o altri intermediari finanziari. La gran parte, e cioè il 77%, non lo ha fatto, e non solo perché non reputava necessario ottenere finanziamenti, ma anche perché l’indebitamento era elevato o il denaro troppo caro.

Un aspetto preoccupante è infine la delocalizzazione, un trend in aumento proporzionale alla crescita della dimensione aziendale. Scelta guidata dalla necessità di contenere i costi, e questo spiega la scelta di Cina, India e altri Paesi asiatici, ma anche per rafforzare la presenza in quei mercati emergenti.


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