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Liquidiamo questa partita e costruiamo il quadro di finanza pubblica e di crescita dei prossimi dieci anni. Diciamo la nostra in modo convincente sul futuro dell’Italia spiegandolo nel frattempo ai mercati prima di pregiudicare le residue possibilità per recuperare la loro fiducia. Che è l’aria che consente di respirare senza rimanere strozzati al Paese che ha l’economia europea più dinamica, ma anche quella con il maggiore debito pubblico sulle spalle. Anche ieri in asta Btp a 7 anni al rendimento top storico.

Non sarà certo questa manovra, che esprime il fiato corto di un quadro di finanza pubblica gestibile, a tirarci fuori dalle secche della improvvisa frenata italiana che si collega a sua volta al rallentamento globale facendo l’esatto opposto di quello che è avvenuto nel biennio precedente. Questa manovra delinea un percorso strettissimo di finanza pubblica, ma proprio nei numeri che la raccontano mostra al mondo intero due pietre gigantesche che riguardano la dimensione troppo esigua della crescita e la sostenibilità del debito altrettanto debole.

Nella manovra ci sono le minime cose per sopravvivere e si stanno facendo i salti mortali per garantirle. Sostanzialmente la conferma per un anno del taglio del cuneo fiscale e pochissimo altro. Non vi fate ingannare dal dibattito televisivo malato e dalle paginate di giornale sul nulla, si parla e si litiga su quelle minime cose che al massimo non producono sfracelli ma di sicuro non ci salvano.

C’è un doppio coro, nazionale e internazionale, che ci dice di pensare e di fare altro. Ci dice di occuparci seriamente di crescita cercando, delineando e spiegando una traiettoria convincente di lungo termine. Ci dice di occuparci di futuro per rendere duraturo un ritmo di crescita sostenuta e di riduzione parallela del debito pubblico.

Dobbiamo tornare a parlare e, soprattutto, a fare non le riforme ma un ciclo coerente di riforme che abbiano l’orizzonte di questa legislatura e della prossima. Perché dieci anni sono il tempo minimo per non sprecare un miracolo economico biennale ricevuto in eredità e costruirne uno stabile che abbia la durata ultradecennale del primo grande miracolo del Dopoguerra che trasformò un Paese agricolo di secondo livello in un’economia industrializzata.

Non sprechiamo parole e energie per una manovra minimale che ci permette al massimo di arrivare a domani mattina. Liquidiamo questa partita per quello che è e costruiamo il quadro reale di finanza pubblica e di crescita, che riguarda la concorrenza come gli investimenti e tutti gli interventi di struttura a partire dalla giustizia.
Soprattutto facciano tutto ciò ora, oggi, anzi ieri, perché dobbiamo almeno dire la nostra in modo convincente sul futuro dell’Italia spiegandolo nel frattempo ai mercati prima che ci pregiudichiamo inconsapevolmente anche le residue possibilità che abbiamo ancora oggi di recuperare la loro fiducia.

Quella fiducia che è l’aria che consente di respirare senza rimanere strozzati al Paese che ha l’economia europea più dinamica, ma anche quello con il maggiore debito pubblico che lo obbliga a pagare solo di interessi 100 miliardi per collocare i titoli pubblici che ci permettono di pagare stipendi e pensioni e di non chiudere il servizio di sanità pubblica. Anche ieri abbiamo collocato in asta Btp a sette anni al rendimento top storico.

C’è un coro, nazionale e internazionale, che va ascoltato. Dalla Banca d’Italia alla Corte dei conti fino all’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) il messaggio che in casa viene inviato al governo sulla politica economia è sempre lo stesso. Guardare al futuro, fare sul serio su crescita e debito, accelerare le riforme e, soprattutto, mandare a imprese e consumatori un segnale chiaro di prospettiva che alimenti la fiducia e riattivi la macchina da guerra di investimenti e consumi privati che sono stati la benzina del motore del miracolo economico della stagione del governo Draghi.

Sul fronte internazionale ha iniziato l’ultima delle agenzie di rating, Scope Ratings, a mettere in dubbio la sostenibilità del nostro debito, poi sono arrivati gli avvertimenti di Fitch e i suggerimenti del Fondo monetario internazionale. Ce ne è abbastanza per capire che non dobbiamo misurarci con i mercati cattivi o con i complotti di oggi che sono come quelli inesistenti di ieri. Perché scambiare la spregiudicatezza dei nostri cari alleati pronti allora come oggi ad approfittare della nostra debolezza con trame studiate a tavolino e messe in campo, non aiuta affatto a risolvere il problema italiano.

Per una volta applichiamoci seriamente a dimostrare al mondo intero che siamo cambiati per davvero in casa facendo quello che ci siamo impegnati a fare con l’Europa e conserviamo quell’apertura di credito che il mondo ha dato all’Italia per stima nei confronti dell’uomo che ha salvato l’euro e guidato il governo monetario europeo con il consenso del mondo.

Giorgia Meloni è al bivio della storia. Ha una pattuglia di ministri all’altezza e altri meno, ma soprattutto può giocarsi la carta della stabilità politica italiana in un’Europa frammentata e popolata di leadership o deboli o indebolite. Per vincere questa sfida deve parlare il linguaggio della coesione e del futuro e, per tradurlo in atti concreti che è ciò che serve, deve cercare e ottenere il massimo di consenso su un disegno comune di sviluppo liberale e di equità sociale.

Deve dimostrare che il conservatorismo moderno non è né uno slogan né una parola vuota. Dipende da noi, direbbe Carlo Azeglio Ciampi, e tutti faremmo bene a ricordarcelo. Non solo chi governa e chi fa opposizione. Perché un Paese cambia se lo vuole davvero il suo tessuto produttivo e sociale. Se tutti capiscono l’importanza di remare nella stessa direzione con due guerre che si incastrano tra di loro e rendono ogni giorno più realistico lo scenario peggiore della guerra globale. Se non smettiamo di litigare nemmeno davanti a questo tipo di rischi, meritiamo l’immeritato giudizio dei compratori mondiali di titoli pubblici italiani.


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