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Il presidente della Federal Reserve Usa, Jerome Powell

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SI STANNO svolgendo in questi giorni, quasi in contemporaneità, le due riunioni che esprimono nel loro insieme quasi plasticamente la complessità, ma anche la complicatezza del nostro mondo attuale in rapporto al dominio economico. A Jackson Hole, una località turistica intrigata in una valle del Wyoming, si ritrovano i banchieri centrali, quelli che “possono, ma spesso non vogliono”. In contemporanea a Johnnanesburg si riuniscono i leader dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), cioè “quelli che vorrebbero, ma non possono”.

È dal 1982 che a Jackson Hole si riuniscono i principali banchieri del mondo su invito della Federal Reserve Bank of Kansas City, una delle banche statali che dal 1913 costituiscono il Federal Reserve System – la Fed – la Banca centrale degli Stati Uniti. Quest’anno la riunione era particolarmente delicata per i venti di recessione che ormai spirano sempre più forti da ogni parte di un mondo che, dopo quasi trenta anni di globalizzazione, si sta dimostrando straordinariamente piccolo, proprio perché sempre più integrato. Il dominio economico appartiene all’America. Anche quest’anno sui circa 100 trilioni di dollari (cioè migliaia di miliardi di dollari) che costituiscono il prodotto lordo mondiale oltre un quarto è realizzato negli Stati uniti, dove tuttavia è concentrata circa la metà dei valori di Borsa mondiali, e sono americane la stragrande maggioranza delle imprese high tech, in una fase storica in cui le cinque maggiori imprese – Alphabet, Amazon, Apple, Meta e Microsoft – hanno ricavi superiori al Prodotto interno lordo di un Paese come la Spagna, raggiungendo livelli di concentrazione senza precedenti.

Nonostante questo il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, così come Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, per timore di farsi prendere la mano dall’inflazione, stanno bloccando le rispettive economie con una politica degli alti tassi che sta spingendo verso un progressivo rallentamento delle economie occidentali, fino all’evidente deflazione della economia tedesca. Dall’altra parte, la riunione dei Brics in Sudafrica non può che avere come obiettivo il tentativo di ampliare la schiera dei Paesi, che amano definirsi in crescita, per poter aumentare il loro peso nelle istituzioni internazionali preposte allo sviluppo, tuttora governate dai Paesi sviluppati. D’altra parte la Cina sta affrontando la più grave crisi dal 1991 a oggi, la Russia ha un’economia che nel suo insieme presentava già nel 2021 un prodotto interno lordo minore del 15 per cento di quello italiano, e oggi è completamente schiacciato sulle esigenze di una guerra che non riesce più a vincere.

L’India certamente sta crescendo, ma ricordiamo che il Pil pro-capite dell’India nel 2022 era di 2.389 dollari per persona all’anno, verso una media mondiale di 12.500 dollari annui, cifra raggiunta ormai anche dalla Cina, ma lontanissima dai livelli che sono necessari per gestire un Paese nelle condizioni di sostenibilità sociale, oltre che ambientale ed economica. Lo stesso Brasile viene classificato tra i Paesi con maggiori ineguaglianze interne, classifica guidata proprio dal SudAfrica, dove la ridottissima minoranza bianca controlla tuttora gran parte della ricchezza nazionale, tanto che il meno del 10 per cento della popolazione dispone dei due terzi della ricchezza nazionale. Si apre una fase, dunque, in cui ognuno si sta posizionando per un momento successivo, in cui necessariamente bisognerà tornare a confrontarsi in modo costruttivo sul dominio economico, ma per questo diviene necessario porre fine alla guerra in Ucraina e trovare una via di uscita all’implosione delle economie africane, di cui finora abbiamo avuto solo brevi sprazzi.


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