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Il rallentamento della Germania mette a rischio l’intero eurosistema: per evitare la recessione cresce il pressing per allentare la stretta sui tassi della Bce

Per lunghi decenni la sindrome dello zero virgola, in sostanza della crescita piatta, è stato il grande male che ha afflitto la nostra economia. Ma ora che le parti si sono invertite, che l’Italia non è più il fanalino di coda del Pil ma, anzi, ha un dato superiore a quello della media Ue, c’è poco da esultare. I paesi europei sono strettamente interconnessi, la frenata dell’economia tedesca, confermata anche ieri, non porta nulla di buono neanche al nostro sistema produttivo. Per non parlare, poi, delle gravi minacce che si profilano all’orizzonte. Con la guerra in Ucraina che non accenna a finire, il nuovo conflitto in Medio Oriente e l’imprevedibile escalation della tensione nel Mar Rosso, con forti conseguenze sulle filiere commerciali e produttive.

Tutti elementi, insomma, che impongono all’Europa un cambio di passo per evitare di trasformare la stagnazione del 2023 in una vera e propria recessione. Un rischio che, per il momento, i principali osservatori sparsi per il mondo, a cominciare dall’Fmi, tendono ad escludere, tanto da stimare la crescita globale di quest’anno al 3,1%, 0,2 punti percentuali in più rispetto alle precedenti previsioni. Ma, non c’è bisogno di consultare le Cassandre per poter affermare che il rischio non è affatto scongiurato del tutto. Giocano contro l’economia i venti contrari dei conflitti. Ma anche le forti tensioni geopolitiche e la grande incognita delle elezioni americane con l’ipotesi di un ritorno di Trump.

Di fronte a questi scenari, occorre, in sostanza, che l’Europa cominci a muovere qualche pedina. Anche prima dell’appuntamento elettorale di giugno, giocando di anticipo per dare qualche giro in più al motore dell’economia. La prima mossa è sicuramente quella più attesa: la riduzione dei tassi di interesse da parte della Bce. Ormai, con l’inflazione, anche quella cosiddetta di fondo, che ha invertito la rotta, i tempi sono sempre più maturi. L’incognita delle nuove pressioni internazionali sui costi delle materie prime, conseguenti alla crisi del Mar Rosso, sembra per il momento sotto controllo. Ci sono tutte le condizioni per anticipare già a marzo quella riduzione dei tassi di interesse. Ipotesi che, per il momento, i falchi dell’istituto di Francoforte, vorrebbero far slittare a giugno.

Ci sono poi, altre due carte che si possono giocare quest’anno per allontanare l’ipotesi di una recessione. Per quanto riguarda l’Italia, la crescita dello 0,7% messa nero su bianco da Eurostat è superiore alla media della zona euro. Ma, anche così, siamo mezzo punto in meno rispetto alla cifra stimata dal governo e necessaria per contenere entro il 4,3% il rapporto deficit-Pil. Molto dipenderà, però, da quello che l’esecutivo riuscirà a mettere in campo con le risorse del Pnrr. Nelle casse dell’erario sono già arrivati circa 100 miliardi di euro, la metà della dote a disposizione. Nessun Paese europeo è riuscito a fare meglio. Ora, però, si tratta di accelerare la spesa e far partire i cantieri. Secondo le stime della Svimez, se i progetti del Pnrr marciassero a regime, ci sarebbe un effetto sul Pil pari allo 0,4%. Più o meno quello che servirebbe per aggiustare i conti pubblici.

La seconda carta a disposizione è, invece, tutta da giocare sul tavolo europeo e riguarda la capacità dell’Unione di utilizzare la grande dotazione finanziaria a disposizione per gestire la transizione climatica e quella digitale. Secondo uno studio di tre esperti, pubblicato da Fps Economy, l’ente che si occupa di economia che fa capo al governo federale belga, gli stati membri dovrebbero investire ogni anno, da qui al 2030, circa 481 miliardi di euro. Ma, per ridurre il gap e raggiungere gli obiettivi di una maggiore resilienza economica, bisognerà mobilitare gli investimenti privati e spendere in modo efficiente le risorse pubbliche a disposizione.

I problemi da superare, però, non mancano: c’è stata una forte discontinuità nel modo in cui l’Ue ha perseguito gli investimenti, “con programmi limitati e sporadici, con diverse fonti di finanziamento e obiettivi sovrapposti”. Proprio per evitare la frammentazione dei progetti occorrerebbe “la creazione di fondo dedicato e permanente per gli Investimenti Strategici Europei (ESI), che può provenire in prima istanza da un bilancio europeo ri-orientato (il Quadro Finanziario Pluriennale).La Banca Europea per gli Investimenti (BEI), si legge nel report, potrebbe essere il gestore naturale di questo nuovo organismo, che dovrebbe impiegare tutti gli strumenti finanziari a sua disposizione per finanziare progetti.

I progetti dovrebbero essere valutati in base a come forniscono valore aggiunto europeo e contribuiscono agli obiettivi strategici dell’Ue. Un fondo che potrebbe anche avvalersi di nuove risorse in grado di alimentare il bilancio di Bruxelles. Nei giorni scorsi era stato proprio il neo governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, a rilanciare l’idea degli eurobond, sul modello di quello che è già avvenuto per finanziare gli interventi del programma post-pandemico Next Generation Eu. Una carta importante da giocare anche in chiave anti-recessione.


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