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Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti

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LA ROTTA su risparmi e privatizzazioni è quella tracciata dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. L’asticella del deficit del 2024 resta al 3,7%, con un avanzo primario (la spesa al netto degli interessi sul debito) dello 0,3%. Tutti gli interventi, insomma, dovranno restare all’interno di questo perimetro. Non c’è spazio per misure da alimentare con disavanzi extra, come è avvenuto negli anni del Covid. Con queste premesse, la legge di Stabilità del prossimo anno non si presenta per nulla semplice. Secondo le stime circolate al ministero dell’Economia, l’idea è quella di una manovra fra i 28 e i 30 miliardi di euro. Per ora in cassa, considerando anche la tassa sugli extra-profitti a carico degli istituti di credito, ci sarebbero fra i 9 e i 10 miliardi. La restante parte è tutta da individuare. Ma, anche per questo, la premier Giorgia Meloni, ha voluto mettere le mani avanti, blindando il titolare dell’Economia, Giorgetti stesso, e lanciando un messaggio preciso a tutti i colleghi di governo e ai leader dei partiti della maggioranza, a contenere le richieste e, soprattutto, dare un contributo concreto alle coperture che, come vedremo, potrebbero arrivare anche dalle privatizzazioni.

La caccia ai 20 miliardi che servirebbero per coprire la legge di Stabilità è già cominciata. Entro il 10 settembre i titolari dei singoli dicasteri di spesa dovranno far pervenire il menu dei possibili tagli, escludendo però tutto quello che serve per fare fronte agli impegni relativi al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (il Pnrr). Pochi giorni prima, il 6 settembre, ci sarà già stato il round con i capigruppo della maggioranza, al quale sarà ribadito lo stesso concetto: assalti alla diligenza dei conti pubblici, a colpi di bonus o mancette, più o meno elettorali, come già avvenuto in passato, non saranno consentiti.

Ma dove si troveranno le risorse necessarie per far quadrare i conti? Anche qui la premier è stata chiarissima: le prime spese da ridurre o cancellare sono quelle che non appartengono al dna dell’attuale maggioranza. Così, al primo posto della lista, sono già finiti i bonus edilizi. Molti sono stati fortemente ridimensionati nell’ultima legge di bilancio. Secondo gli ultimi calcoli, sono costati alle casse dello Stato circa 120 miliardi di euro, oltre due terzi assorbiti dal maxi-incentivo del 110%, circa 20 miliardi dal bonus facciate e la restante parte dagli altri incentivi tuttora in vigore per le ristrutturazioni. L’idea che sta maturando è quella di un riordino generale, “in modo tale da combinare la spinta all’efficientamento energetico e antisismico degli immobili con la sostenibilità dei relativi oneri di finanza pubblica e l’equità distributiva”. Insomma, basta con le agevolazioni “erga omnes” e, invece, introduzione di soglie di reddito per ottenere gli sconti.

Del resto, si fa notare da Palazzo Chigi, molti cittadini sono stati attualmente esclusi dai benefici per l’edilizia proprio perché “incapienti”: non avevano guadagni sufficienti per poter compensare i crediti fiscali. Anche in questo caso la strada potrebbe essere quella dell’introduzione di soglie di reddito per l’erogazione dei bonus. In questo potrebbe essere d’aiuto la rimodulazione delle risorse del Pnrr proposta da Fitto che ha spostato circa 19 miliardi sul capitolo del RepowerUe. Di questi, circa 14 potrebbero essere destinati ad un nuovo “ecobonus” da destinare alle famiglie con redditi medio bassi e a crediti di imposta per le imprese che investono nella transizione green. Ma non ci sono solo i bonus per l’edilizia.

Nel mirino anche la miriade di sconti fiscali, le cosiddette “tax expenditures” che pesano per oltre 125 miliardi sul bilancio dello Stato. Fra il 2016 e il 2022 sono cresciute di oltre il 40% e, come spiega un dossier del Senato, sono stato spesso utilizzate “per finalità politiche o di scambio con gruppi di interesse”. Una commissione di esperti già nominata dal viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, è già all’opera per individuare, entro il 20 settembre, le voci da ridurre o tagliare, con l’obiettivo di raccogliere fra i 4 e i 5 miliardi. Saranno in ogni caso escluse le agevolazioni previste per i figli, la casa, la salute, l’istruzione, la previdenza complementare e gli interventi per la riduzione del rischio sismico.

Ma c’è un altro capitolo che, un po’ a sorpresa, il ministro dell’Economia Giorgetti ha lanciato sul tavolo, quello delle privatizzazioni. Anche in questo caso il lavoro è complesso. “Oggi discutiamo di uno Stato che entra in partecipazione strategica (Tim, ndr.), può darsi ci siano altre realtà in cui sia opportuno in qualche modo disinvestire”, ha detto Giorgetti ai suoi colleghi di governo durante la prima riunione del Consiglio dei ministri post pausa estiva riferendosi proprio alle privatizzazioni. L’orientamento che starebbe prendendo forma è la vendita di quote di minoranza ma con tutte le precauzioni necessarie, preservando attentamente il controllo pubblico, soprattutto per le società considerate strategiche. Tra le quotate figurano Mps (64,23%), Enav (53,28%). Enel (23,59%), Eni (4,34%, oltre al 25,76% attraverso Cdp), Leonardo (30,20%), Poste italiane (29,26% oltre al 35% attraverso Cdp). E se su Mps è da anni che si parla della possibile uscita del socio pubblico ma la cosa non si è ancora materializzata, nell’ultimo decennio lo Stato è intervenuto su Enav e Poste, inizialmente controllate al 100%: la privatizzazione di Poste è iniziata a fine 2015 e il Tesoro ha ceduto al mercato il 34,7% del capitale, incassando più di 3 miliardi di euro; nel 2016 è toccato alla società che gestisce il controllo del traffico aereo, con un’Ipo che ha permesso al Mef un incasso fino a 834 milioni. Ora, nell’elenco, potrebbero finire anche i porti, come annunciato nei giorni scorsi dal vicepremier, Antonio Tajani. O i servizi di alcune società municipalizzate, esclusa l’acqua, che potrebbero essere affidate ai privati.

Nel frattempo non si placa la polemica politica. La leader del Pd, Elly Schlein va all’attacco sui tagli annunciati per la sanità: “È chiaro che non hanno i soldi per mantenere quanto hanno promesso. “Per noi – ha aggiunto Schlein – è fondamentale mettere le risorse dove hanno dimenticato volutamente di metterle nella scorsa manovra, in primis nella sanità pubblica. Non mettere le risorse sulla sanità pubblica vuol dire già tagliare i servizi alle cittadine e i cittadini. Stiamo già vedendo le liste di attesa che si allungano”. Sul piede di guerra anche la Cgil: il leader, Maurizio Landini, ha chiesto un incontro urgente con il governo, prima della manovra, per parlare di contratti e pensioni.


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