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MOLTI cittadini sono rimasti soddisfatti, molti dirigenti della Rai hanno tremato, quando, dopo il Consiglio dei ministri del 16 ottobre scorso, è stata annunciata la riduzione del canone Rai in bolletta elettrica da 90 a 70 euro per l’anno 2024. Una riduzione pari a circa 440-450 milioni per la concessionaria, compensata da un contributo di 430 milioni sempre per il 2024 (ma ci sarebbe un’intesa per renderlo triennale), “per la qualità del servizio pubblico nell’ambito delle iniziative previste dal nuovo contratto di servizio”. Così prevede l’articolo 8 della bozza della legge di Bilancio, che andrà in discussione in Parlamento.

L’importo da pagare da parte di ciascun cittadino scende di venti euro. Anche nel 2015 e nel 2016 il canone venne ridotto, portandolo prima a 100 e poi a 90 euro, ma non ci furono le contestazioni che stanno arrivando da più parti. Non solo politiche: Mediaset ha preso posizione contro la riduzione del canone, sia con l’intervista di Piersilvio Berlusconi al Corriere della Sera e in modo ancor più netto con l’intervento di Gina Nieri, consigliere di amministrazione del gruppo, alla presentazione a Roma del libro di Astrid sulla “Tv del futuro”.

Mediaset non vuole che la Rai incontri altre difficoltà in aggiunta a quelle attuali, in particolare sugli ascolti e sulla crescita dell’indebitamento finanziario. Secondo alcuni costituzionalisti, in particolare, dopo la riforma costituzionale sulla parità di bilancio, la legge di Bilancio può modificare altre norme. E l’attuale provvedimento non si limita, come nei casi precedenti, a ridurre l’importo, ma aggiunge un “contributo” da attribuire alla Rai, modificando il sistema di finanziamento della concessionaria. Una somma pari a 430 milioni di euro – quasi 1300 nel triennio – viene sottratta all’imposta di scopo pagata da ciascun cittadino (a parte le esenzioni), che, come tale, deve essere riversata, per legge, al servizio pubblico. Dall’imposta di scopo, parte del finanziamento del servizio pubblico passa alla fiscalità generale, e diventa discrezionale e non più automatico come il prelievo sulle bollette. Tra parentesi, anche l’Unione europea potrebbe ipotizzare un aiuto di Stato. Sottolinea un giurista, che preferisce restare anonimo: “Il presupposto di imposta muta e passa dalla detenzione di un sintonizzatore al possesso di un reddito”.

Esempio brutale: un evasore totale non partecipa alla fiscalità generale, ma potrebbe pagare il canone con la bolletta. E chi ha diritto all’esenzione dal canone, al contrario, contribuirà comunque ai 430 milioni annui versati alla Rai. La questione principale è l’indipendenza dei servizi pubblici da pressioni governative, politiche, economiche: un principio enunciato dal Parlamento europeo (ma spesso non attuato da diversi Stati) nel maggio 2022. Ancor più sarà aumentata la dipendenza di Viale Mazzini dalle scelte del Governo (che possiede il 99,95% delle azioni Rai) se rimarrà nella disegno di legge, dopo l’esame in Parlamento, la norma che prevede il contributo del Governo valevole anche per realizzare le “produzioni interne”, quindi elargito non solo per gli investimenti in infrastrutture, ma anche per l’attività editoriale. Si può aggiungere che la legge 243 del 2012 prevede che “non possono essere previste norme di carattere ordinamentale o organizzatorio né interventi di natura localistica o microsettoriale” nella legge di Bilancio.

La legge di Bilancio può ridurre il canone, ma non cambiare le modalità di finanziamento del servizio pubblico, sostengono molti giuristi. Appare probabile, insomma, che le opposizioni, e forse non solo le opposizioni, chiederanno il giudizio di costituzionalità alla competenti commissioni parlamentari. Un giudizio finale spetterà poi al presidente della Repubblica in fase di promulgazione della legge. La questione canone Rai, insomma, ha aperto uno scontro a più livelli: politico, giuridico e tra le imprese del sistema dei media. Al centro una Rai a cui vengono sottratte certezze, in un contesto tecnologico e di mercato in cui il duopolio della tv generalista diventa più un ostacolo alla competizione per gli stessi duopolisti, costretti a difendersi, anziché ad innovare processi e prodotti, progettando il futuro.


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