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La presidente del Consiglio Giorgia Meloni

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LA TRATTATIVA è appesa a un filo e non è detto che arrivi al traguardo in tempo utile per cominciare il 2024 con la nuova versione, riveduta e corretta, del Patto di Stabilità: anzi, per certi aspetti, un compromesso al ribasso, potrebbe creare più problemi che opportunità rispetto alle vecchie regole. Come a dire: meglio a questo punto tenersi quello che già esiste, magari facendolo funzionare meglio.

Un pasticcio di cui anche i vertici dell’esecutivo comunitario sono consapevoli. Il prossimo appuntamento in agenda è il Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre. Se i capi di Stato riuscissero a trovare la quadra e a risolvere i nodi principali sul tappeto, ci potrebbe essere un nuovo Ecofin straordinario fra il 18 e il 21, per varare la riforma prima della fine dell’anno. I tempi, insomma, sono stretti e i temi da affrontare complessi, a partire dalle nuove regole relative alle procedure di infrazione per i Paesi non in regola con il tetto del 3% deficit-pil e quella flessibilità necessaria per evitare che il nuovo Patto di stabilità si trasformi nell’ennesima camicia di forza per l’economia del Vecchio Continente.

Se volessimo sintetizzare in poche righe la situazione, ci troviamo di fronte a tre forze in campo. La prima è quella della Commissione europea che più di un anno fa, il 22 novembre, ha messo a punto una proposta tesa, sulla carta, a semplificare le vecchie norme. In sostanza, ogni singolo Paese avrebbe dovuto concordare con Bruxelles un sentiero di rientro dal deficit, assumendo impegni spalmata su tre o sette anni. Un’idea nobile, per carità, ma che di fatto consentiva alla Commissione di ampliare i suoi attuali poteri. La seconda forza è quella della Germania, che vorrebbe parametri certi e quantitativamente definiti per il percorso di risanamento dei conti. Una strada particolarmente onerosa per i Paesi più deboli e indebitati, che fa leva soprattutto sulla leva del rigore. La terza pressione è quella esercitata da Italia e Francia, che vorrebbero avere maggiori margini di flessibilità per evitare che regole troppo stringenti possano frenare gli investimenti e quindi la crescita.

La trattativa si è arenata proprio su questo terreno, con una ipotesi di compromesso che prevede, fin al 2027, un periodo transitorio per scomputare dal deficit alcune spese: quelle relative al Pnrr, alla transizione ecologica, al digitale e alla difesa. Ma non è detto che si arrivi ad un accordo, anche perché su alcune delle questioni in campo, serve l’unanimità da parte di tutti i 27 Paesi della Comunità e l’Italia, giusto per fare un esempio, potrebbe esercitare fino all’ultimo il potere di veto. Restano, però, alcune considerazioni, non proprio secondarie. Se l’idea originaria era di avere un Patto di Stabilità più attuale e, soprattutto, più vicino alle esigenze di un’economia come quella europea, che fatica a trovare la strada delle competitività, l’ipotesi di compromesso in realtà non fa altro che replicare lo spirito delle vecchie regole: rigidità da un lato e flessibilità (prima si chiamavano fattori straordinari) dall’altro.

Da questo punto di vista non converrebbe tenersi, almeno per un altro anno, il Patto attuale rinviando la discussione a dopo le elezioni europee? Un modo per evitare che l’ombra delle urne e, soprattutto, la voglia tutta politica dell’attuale Commissione di battere un colpo, possano prevalere sulla difesa degli interessi generali dell’Europa. Per l’Italia, poi, la trattativa è strettamente legata alla ratifica della riforma del Mes, al completamento dell’Unione Bancaria e delle nuove politiche fiscali. Lo ha chiarito ieri anche la premier, Giorgia Meloni, che ha difeso la strategia del governo: «Io credo che l’Italia stia ponendo una questione che non è il tentativo di modificare il Patto proposto da una nazione che vuole spendere liberamente soldi a pioggia senza senso. Noi, poniamo un problema che non va solo nell’interesse dell’Italia ma dell’Europa intera. L’Italia chiede che gli investimenti che vengono fatti, anche incentivati dall’Unione europea su alcune materie considerate strategiche dalla stessa Ue, vengano riconosciuti dalle regole della governance». E ancora: «Non mi pare folle se dico che non si può da una parte chiedere agli Stati di investire su alcune priorità e dall’altra fingere che questo non sia utile ed addirittura arrivare a delle regole di governance che puniscano i Paesi che investono su quelle priorità. Il tema, per noi, è quello degli investimenti». Magari puntanto anche far slittare, di altri due anni, il parametro del 3% del rapporto deficit-Pil. Ma questo, forse, sarà davvero difficile da ottenere.


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