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Causa o effetto? La scarsa crescita produce diseguaglianza o è la diseguaglianza a causare la bassa crescita?

Ambedue le proposizioni sono vere, il che vuol dire che siamo in presenza di un circolo vizioso. Ed è tempo di aggiornare le cause della bassa crescita dell’Italia, mettendo esplicitamente nell’elenco le diseguaglianze territoriali, massimamente fra Nord e Sud. Mettendole nell’elenco come cause, e non come effetto.

Dopo la Grande recessione gli economisti, presi di sorpresa da quella deflagrazione, si sono chinati su due aree che fino allora avevano ricevuto poca attenzione: i rapporti fra finanza ed economia (con la finanza non più semplice ancella, ma capace di diventare padrona) da una parte, e i rapporti fra diseguaglianza e crescita dall’altra.

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La diseguaglianza – ora lo sappiamo – indebolisce la crescita perché sfilaccia la coesione sociale, ordisce ‘trappole di povertà’, alimenta l’invidia e nutre una cinica rassegnazione.

Mina alla base, cioè, quella fiducia in un futuro migliore che è alla base delle decisioni di spendere e di investire.

Senza contare che i più ricchi hanno una propensione alla spesa minore di quella dei più poveri, il che vuol dire che una crescente diseguaglianza indebolisce la domanda aggregata.

Questi rapporti di causa ed effetto vengono di solito analizzati a livello individuale, a livello delle decisioni economiche di famiglie e imprese. Ma c’è un’altra dimensione della diseguaglianza, una dimensione che è altrettanto importante di quella fra singoli individui: è la dimensione territoriale, che in Italia si declina fra Nord e Sud.

Quando si passa al livello territoriale, il tutto diventa più della somma delle parti, perché alla divisione fra cittadini di serie A e di serie B, si aggiungono le ‘stimmate’ di regioni di serie A e di serie B.

Come combattere la diseguaglianza? A livello di individui si può pensare a rendere la tassazione più progressiva, anche se la storia insegna che rendere i ricchi più poveri non vale a rendere i poveri più ricchi.

Sempre a livello di individui si può irrobustire la rete di sicurezza sociale (il reddito di cittadinanza ne è un esempio, anche se mal congegnato), ma, come nel primo caso, queste misure curano i sintomi, non le cause.

La chiave sta nel combattere le diseguaglianze territoriali, che sono le più pericolose. E questa chiave sta nel miglioramento delle infrastrutture fisiche e giuridiche, così da rendere possibile una vera ‘eguaglianza dei punti di partenza’.

E fra le infrastrutture fisiche non contiamo solo le opere pubbliche, pur essenziali, ma anche i servizi pubblici nella loro dimensione di dotazione di risorse fisiche e umane. Per rendere tutto questo possibile è innanzitutto fondamentale definire i livelli essenziali di prestazioni (Lep), i fabbisogni standard, che ogni cittadino ha diritto a ricevere dallo Stato.

Torna a onore del legislatore di aver legiferato, almeno dieci anni fa, questi Lep; e torna a disonore di Parlamenti e Governi il fatto di non averli mai realmente introdotti da dieci anni a questa parte. A livello di Comuni c’è un pallido e parziale rimedio all’assenza dei Lep, il Fondo di perequazione.

Ma a livello regionale non c’è niente. Un esempio sconfortante – la Sanità in Calabria – di come l’assenza dei Lep abbia scolorato il diritto dei cittadini – calabresi o quant’altro – ad avere cure sanitarie sufficienti e dignitose (LEGGI). L’autonomia differenziata non è di per sè un’iniziativa sbagliata, come disse il professor Valerio Onida: ma dipende tutto da come viene fatta, aggiunse. E il come viene fatta, nell’ospedale da campo di questo tempo e di questo Paese, in assenza di Lep e di Fondi di perequazione, va a cristallizzare le diseguaglianze.

Il criterio della spesa storica, più volte denunciato su queste colonne, congela una situazione di fatto che ha portato a esiziali iniquità e minorità nel corpo vivo dell’Italia. Non è possibile pensare a correggere le distribuzioni di risorse del passato con un ‘rimborso’ del maltolto. Qui soccorre la saggezza napoletana: ‘chi ha avuto ha avuto ha avuto…’.

Ma è importante, al margine, da oggi al tempo a venire, ricalibrare le poche risorse disponibili in favore delle Regioni povere. Il Sud ha fame di infrastrutture: se “Cristo si è fermato a Eboli”, l’Alta Velocità si è fermata ancora prima, a Napoli; e non è solo questione di treni… E il Sud ha ancor più fame di servizi pubblici efficienti, e per averli è necessario distribuire le risorse sulla base di quei Lep che auspichiamo vengano prontamente definiti. Tutto questo non è una questione di equità o, peggio di assistenzialismo. Si tratta, come detto sopra, di una questione di crescita.

Il Mezzogiorno è un giacimento di crescita potenziale per un Paese che non cresce. E l’Italia non crescerà se non vengono dati al Mezzogiorno i mezzi per sollevarsi da questa storica e iniqua minorità.


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