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Nel Paese di qua dove si è arrivati a azzerare (0,15% del Pil) la spesa pubblica per infrastrutture e si viaggia stabilmente “sott’acqua”, niente treni veloci, zero capacità ferroviaria e i porti più attrezzati del Mediterraneo lasciati volutamente isolati, fermare Taranto significa perdere 2,6 miliardi su 3,5 di prodotto interno lordo in fumo e una recessione stimata che passa dallo 0,2 allo 0,7%.

Nel Paese di là dove si sono spesi 5,5 miliardi per un’opera che nessuno al mondo ha fatto, che nessuno ha provato, di cui il sindaco di Venezia, Brugnaro, dichiara candido: non ne so nulla, e che ha legato il suo nome alla madre di tutte le tangenti italiane e a un marchio di infamia globale per la classe politica e l’intero Paese, c’è l’afflato giusto legato all’unicità della Serenissima nel mondo e si metterà di nuovo mano al portafoglio della spesa pubblica.

Nel frattempo, però, l’Italia chiude. Perché non esce mai dall’emergenza. Perché ha volutamente smantellato il suo sistema di grandi imprese a favore del più viziato dei capitalismi europei. Perché insegue un sogno ecologista tanto giovanilista quanto inconcludente ignorando mortalmente che questione industriale e questione ambientale stanno insieme. Senza la prima non c’è la seconda. Non si tutela l’ambiente e si paga il costo della deindustrializzazione.

A Taranto avevamo l’impianto industriale a ciclo completo più innovativo d’Europa, siamo riusciti a trasformarlo in un “mostro ecologico”. Addirittura rischiamo di sperimentare sulla nostra pelle una prima mondiale: un colosso franco-indiano che come l’ultimo dei padroncini del vapore e come non potrebbe fare neppure un inquilino che lascia l’appartamento in affitto, chiude l’acciaieria simbolo del Vecchio Continente nel giro di qualche settimana.

Scappa, avendo torto marcio, e chiede pure soldi perché abbiamo avuto l’intelligenza di “giocare” con le tuteli penali che un minimo di buon senso dovrebbe garantire a chiunque si trovi a gestire una situazione così complicata. Siamo all’emergenza assoluta. A Taranto siamo in una situazione dove si paga il prezzo della miopia della classe di governo, l’intreccio distorto tra ambiente e giustizia, una sottovalutazione pericolosa della questione industriale italiana.

A Venezia non è così, a suo modo è peggio, per lo scaricabarile a cui assistiamo oggi sulle colpe dello “Stato Centrale” – quasi che lo Stato non fosse più uno – da parte di chi appartiene a forze politiche nazionali e locali che hanno sporcato l’immagine dell’Italia con le nefandezze del Mose. Tutto ciò delinea solo a quale livello di perversione può condurre l’egoismo di chi si è abituato a usare le casse pubbliche come un forziere proprio non rischiando più con le sue imprese e privando il Sud delle risorse di sviluppo dovute nell’interesse dell’Italia tutta.

Per provare a misurare il valore delle frasi che diciamo (il futuro è l’ambiente) sarà utile analizzare un giorno il divario che intercorre tra ciò che è e ciò che sarà l’Italia. Possibile, mi domando, che nessuno si sia posto in casa nostra il problema che le condizioni della siderurgia sono inquinanti ovunque e che nei prossimi trent’anni la riqualificazione ambientale dei siti industriali e dei territori adiacenti sarà uno dei grandi business del futuro?

Perché, come sarebbe avvenuto ai bei tempi dell’Iri, non viene in mente a nessuno di non combattere più in difesa per l’industria “bellica”, ma visto che si devono spendere comunque tanti soldi aumentare l’utilità marginale risanando Taranto e candidandosi a essere uno dei player globali dei prossimi trent’anni nella cura ambientale del mondo?

Possibile che non si capisca che alluvioni così significative a Venezia indicano che sta crescendo il tema del clima e delle politiche globali di contrasto per cui un Paese con la cultura industriale come il nostro può avere a Venezia il suo laboratorio del futuro?

Possibile tornare a ragionare in grande e pensare di rifare con gli uomini giusti Industria Italia senza aggiungere al localismo arrogante delle imprese il localismo arrogante delle classi politiche territoriali? Due arroganze messe insieme mettono a nudo la nostra debolezza. Possono chiudere l’Italia.


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